Autore archivio: ammininstratore

Gamification: una risorsa nuova per l’azienda

a cura di Daniele Tramannoni

gamificBrian Sutton-Smith, uno dei più importanti psicologi del gioco, sottolinea che a differenza di quello che comunemente si può ritenere, “l’opposto del gioco non è il lavoro. E’ la depressione”.

Questo spirito contraddistingue da sempre il lavoro del team di Performando che utilizza diverse modalità di formazione esperienziale, in cui l’aspetto ludico ricopre un ruolo rilevante, perché capace di aumentare la motivazione e favorire il coinvolgimento cognitivo ed emotivo.

La Gamification, ovvero l’applicazione delle dinamiche di gioco al di fuori di contesti ludici, si trova perfettamente in linea con questo approccio.

Immaginate di ricevere dei punti se arrivate in orario in ufficio, o se vi siete lavati i denti dopo la pausa pranzo, o se prendete la bicicletta invece dell’auto.

Tutto come se la vita fosse un gioco.

Le meccaniche del gioco sono alla base della Gamification: l’introduzione di concetti come punti, livelli e sfide incoraggia gli utenti ad investire il proprio tempo, spingendoli alla partecipazione e aiutandoli a costruire delle relazioni all’interno del gioco. Tali relazioni motivano gli utenti al raggiungimento di determinati obiettivi, modificando di fatto il loro comportamento. Infatti, in questo modo,possono ottenere delle ricompense che danno loro la possibilità di esprimere se stessi all’interno della comunità, utilizzando oggetti virtuali per creare una loro identità distinta oppure degli achievement da mostrare per veicolare la competizione, insieme alle proprie posizioni in classifiche globali e parziali. Inoltre le esperienze basate sulle logiche della gamification stanno riscuotendo un notevole successo derivante dai reali obiettivi che permettono di raggiungere.

E’ proprio per questo motivo che sempre più spesso si guarda alla gamification come una delle soluzioni per rendere il lavoro più coinvolgente e stimolante, capace di aumentare non solo l’engagement del dipendente ma anche le sue performance.

A tal proposito citiamo una ricerca condotta da Technology Advise, società Americana che permette di comparare e trovare software per il business, che ha cercato di indagare sul mercato Americano il livello di coinvolgimento dei dipendenti. “I risultati di questa ricerca, che ha preso a campione circa 400 lavoratori Americani parlano chiaro: il 71% degli intervistati non è emotivamente coinvolto nel suo lavoro e questo dipende da vari fattori, tra cui aspetti organizzativi, psicologici e ambientali”.

Questa percentuale così elevata comunica chiaramente alle aziende ed al mondo delle risorse umane che qualche cosa deve cambiare.

Agli stessi soggetti è stato chiesto se ritenessero che l’introduzione di elementi ludici potesse modificare l’engagement percepito sul loro lavoro. Più della metà, il 54%, hanno espressamente indicato che si sentirebbero più coinvolti o comunque preferirebbero svolgere delle mansioni in cui l’aspetto del gioco, con le relative dinamiche, fosse presente.

Ecco, allora, un esempio concreto in cui i processi di gamification sono stati utilizzati con successo nella grande industria.

Un compito estremamente importante in azienda ma con un appeal decisamente scarso è sicuramente la gestione e l’inserimento dati nel database aziendale.

Molte importanti aziende dipendono letteralmente dal fatto che questo lavoro venga svolto in modo esemplare, senza errori e con precisione assoluta. Per questo motivo un gruppo di esperti del settore ha presentato ad una passata edizione della SAP Gamification Cup un nuovo approccio al lavoro, strutturato in base a dinamiche di gamification: in pratica questo gruppo di esperti ha preparato una piattaforma in cui al semplice inserimento dati venivano affiancate delle “missioni” completando le quali si ottenevano punti ed “esperienza”. Guadagnando punti le persone coinvolte salivano in classifica scalando un’apposita leaderboard, mentre ottenendo “esperienza” si andava a riempire un’apposita “barra di avanzamento” sempre presente a schermo, completata la quale l’utente avanza di livello.

L’inserimento di questa semplice barra e l’assegnazione di missioni precise hanno reso il lavoro nel complesso molto più appagante ma soprattutto meno dispersivo: inserire dati per tutto il giorno tende infatti a dare l’impressione di star svolgendo un compito senza senso ma soprattutto senza fine. Ottenere invece dei risultati concreti e cadenzati (completamento di una missione, elargizione di punti, riempimento della barra di avanzamento) evita di scivolare in questa impressione, aiutando a mantenere alta la concentrazione e l’attenzione, producendo così significativi miglioramenti nelle performance complessive.

Questo è solo un esempio di gamification applicata con intelligenza, nei giusti modi e nei giusti contesti, esempio che ha portato concreti miglioramenti nelle performance e nelle attività quotidiane dei dipendenti dell’azienda.

In realtà, i campi di applicazione della gamification sono a dir poco infiniti e spaziano dalla sensibilizzazione in ambito sociale al marketing. Ne sono un esempio rispettivamente il RecycleBank e Nike Plus.

Il primo è un progetto di Gamification che ha trasformato il meccanismo della raccolta differenziata in un gioco a punti dove più si ricicla, più si accumulano punti, più si vincono premi come sconti e coupon.

Nel secondo caso invece parliamo di un’applicazione che monitorando la tua attività fisica, stimola a migliorare le proprie performance e allo stesso tempo, mediante la condivisione sui social network, dona visibilità al marchio.

Parlando di Gamification mi piace ricordare un caso tutto italiano: Beintoo, la software house vincitrice della Start-up Competition a LeWeb 2011, fondata da Antonio Tomarchio, imprenditore milanese. Grazie a questa applicazione i clienti capaci di raggiungere un certo punteggio nei diversi social game, come Fruit Ninja, vengono premiati con sconti e coupon. Questi premi sono offerti dagli sponsor che a loro volta ottengono fedeltà da parte della clientela. Lo scopo dunque è quello di creare, attraverso il gioco, uno scambio di fiducia e di valore tra il brand e i suoi clienti.

L’estrema efficacia della Gamification, empiricamente rilevata, rivela come questa non sia una moda passeggera ma una rivoluzione culturale destinata ad entrare progressivamente nelle nostre vite e a restarci.

Un grande grazie!

a cura di Andrea Di Lenna

graziearticoloDa diverso tempo in Performando stiamo investendo nelle attività di ricerca per sviluppare e migliorare contenuti, approcci e modalità da proporre ai nostri clienti.

E’ un processo per noi di vitale importanza, che ci consente di stare al passo con le principali tendenze nel mondo della gestione delle persone e della formazione che le riguarda, permettendoci di conseguenza di trasferire tali conoscenze alle organizzazioni con le quali lavoriamo.

Ognuno di noi passa così una grossa parte del suo tempo a spulciare giornali e riviste, a scandagliare internet e i social network, a leggere libri, a guardare film e ad approfondire ricerche che possano in qualche misura contribuire allo sviluppo del nostro know how.

Nella definizione e nello sviluppo di questo processo una nota di merito deve essere attribuita ad Andrea Petromilli, uno dei consulenti che ha contribuito a creare più di dieci anni fa Performando, e a Sara Caroppo, che sta raccogliendone il testimone.

Il grande merito di entrambi è quello non solo di dedicarsi alla ricerca, ma di rendere disponibili a tutti noi e ai nostro clienti gli esiti della stessa all’interno del nostro sito e delle nostre pagine sui social network come Twitter, Facebook e Linkedin.

Un altro grande merito di Andrea e Sara è quello di coordinare e far collaborare su questo fronte gli stagisti e i tirocinanti che si susseguono uno dopo l’altro nei nostri uffici e che, con grande entusiasmo e determinazione, scrivono articoli, fanno recensioni di libri e film e propongono senza sosta nuovi contenuti.

Il mio personale ringraziamento va quindi a Roberto Micciulla, Lorenzo Marchesini, Francesca Tricarico,Ronkè Oluwadare,Simone Meniconi, Cristiano Lai, Camilla Bosio,Giacomo Vidoni, Sebastiano Cutrupi, Monica Turdò, Nicola Ceron,Tommaso Cuccarolo, Daniele Tramannoni, perché una parte del contributo che riusciamo a proporre ai nostri clienti è l’esito della loro attività, che ci dà spunti e conferme sull’utilità della ricerca nel nostro affascinante lavoro.

Siate curiosi: imparerete, con piacere.

a cura di Daniele Tramannoni

curiositadaniele“Non ho particolari talenti, sono solo appassionatamente curioso”
A. Einstein

La frase di Albert Einstein è l’emblema del legame che unisce curiosità e apprendimento.
Questo non significa che è impossibile apprendere senza essere curiosi, ma la curiosità rende il processo di conoscenza più semplice, veloce e soprattutto più costruttivo.

Quando viene stimolata la curiosità, imparare nuove cose è un vero e proprio piacere.

A dimostrazione di questa tesi intervengono numerose ricerche nell’ambito delle neuroscienze; riportiamo di seguito uno studio pubblicato sulla rivista “Neuron” da un gruppo di ricercatori guidato da Matthias Gruber, esperto dell’Università della California di Davis.

Gruber e colleghi hanno sottoposto a risonanza magnetica alcuni volontari mentre rispondevano a diversi quesiti, alcuni su argomenti che li incuriosivano, e altri su temi che li lasciavano indifferenti.

I soggetti dovevano cercare di rispondere, ma solo dopo un lasso di tempo durante il quale venivano mostrati su uno schermo una serie di volti.

Tre sono i risultati emersi dallo studio.

In primo luogo, come previsto, quando la gente era molto curiosa di scoprire la risposta a una domanda, era anche più predisposta ad appendere informazioni.

Dato sorprendente: una volta che la curiosità era stata stimolata, i partecipanti mostravano un migliore apprendimento delle informazioni rispetto a quelli non incuriositi.

“La curiosità può mettere il cervello in uno stato che permette di imparare e conservare qualsiasi tipo di informazione”, spiega il dottor Gruber.

Il secondo aspetto è che quando la curiosità veniva stimolata, vi era una maggiore attività nella corteccia celebrale.

“Abbiamo dimostrato che la motivazione intrinseca in realtà recluta le stesse aree del cervello che sono coinvolte in concreto, durante la motivazione estrinseca”, afferma il Dott. Gruber.

Questo circuito di ricompensa si basa sulla dopamina, un messaggero chimico che trasmette messaggi tra i neuroni.

Infine, il team ha scoperto che quando la curiosità era motivata dall’apprendimento, l’attività nell’ippocampo, regione del cervello che è importante per la formazione di nuovi ricordi, era maggiormente elevata: “Così la curiosità recluta il sistema di ricompensa, e le interazioni tra il sistema di ricompensa e l’ippocampo sembrano mettere il cervello in uno stato in cui si accentuano le probabilità di apprendere e conservare le informazioni, anche se tale informazione non è di particolare interesse o rilevanza,” spiega il ricercatore Charan Ranganath.

Gli esiti della ricerca potrebbero aiutare gli scienziati a trovare modi per migliorare l’apprendimento e stimolare la memoria complessa, sia in individui sani che in quelli con condizioni neurologiche degenerative.

“I nostri risultati hanno implicazioni potenzialmente di vasta portata sulla gente, perché rivelano come una forma di motivazione intrinseca, la curiosità, colpisca la memoria e ne suggerisca a questa modi per migliorarne l’apprendimento”.

La continua ricerca di Performando di nuove metodologie e metafore finalizzate al miglioramento dell’apprendimento, e la costante collaborazione con gli istituti universitari, si inseriscono in questa cornice che vede teoria e pratica lavorare in sinergia.

L’influenza reciproca di tali fattori permette, a chi si occupa di formazione e apprendimento, di incuriosire ulteriormente i partecipanti e di rendere applicabile il “nuovo” alle realtà di riferimento delle persone.

Pensi positivo? Il cuore ringrazia!

Recensione a cura di Sara Caroppo

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Esiste un forte legame tra corpo e mente: più passa il tempo, più la scienza ce lo dimostra.

L’ultima prova arriva dall’università dell’Illinois: quando la saggezza popolare affermava: “pensare positivo fa star bene”, non sbagliava.

I ricercatori americani hanno condotto uno studio che ha visto la partecipazione di oltre 5000 adulti tra i 45 e 84 anni di età.

L’obiettivo dello studio era incrociare i dati relativi alla situazione cardiovascolare delle persone, con la loro predisposizione all’ottimismo e la salute mentale in generale, per vedere se e quale tipo di correlazione ci fosse.

I parametri scelti per analizzare la loro situazione cardiovascolare sono stati i sette utilizzati dall’ American Heart Association: pressione sanguigna, indice di massa corporea, livelli di glicemia e colesterolo, tipo di alimentazione, quantità di attività fisica svolta e vizio del fumo.

Per rilevare l’ atteggiamento mentale invece sono stati somministrati dei questionari.

Quello che ne è uscito fuori è un risultato importante sopratutto per chi nutre ancora dubbi sull’influenza che i pensieri hanno sul corpo.

«Le persone più ottimiste hanno una probabilità doppia di avere un cuore sano rispetto a chi vede tutto grigio» ha commentato l’autore principale della ricerca, Rosalba Haernandez dell’University of Illinois. «E questa associazione rimane significativa anche quando si escludono le variabili socioeconomiche e quelle relative alla salute mentale».

Per tutti coloro che hanno un atteggiamento positivo, la probabilità di collocarsi in una situazione ideale o intermedia per la salute cardiovascolare, e di avere livelli minori di colesterolo e glicemia, varia tra il 50% e il 76%.

«Se pensiamo alle ricadute sulla popolazione generale – ha commentato Hernadez – tutto questo si può tradurre in una riduzione dei tassi di mortalità. Ecco perché le strategie di prevenzione della malattie cardiovascolari dovrebbero prendere in considerazione anche quegli strumenti che possono migliorare il benessere psicologico delle persone».

A questo punto, a voler fare l’avvocato del diavolo, si potrebbe dire che forse lo scetticismo dei tanti parte dal dubbio che il pensare positivo, quel voler vedere sempre il bicchiere mezzo pieno, qualsiasi situazione si presenti nella vita, sia eccessivo o talvolta fuori luogo.

Ci permettiamo di dire, allora, che forse ad essere sbagliato è il presupposto di partenza, ovvero la definizione stessa che viene data al concetto di ottimismo.

Martin Seligman, famoso psicologo americano che studia come migliorare il benessere personale sottolinea la differenza esistente tra l’ottimista realista (esiste anche quell’ottuso…) e il pessimista, chiamando in causa lo “stile attributivo”, cioè la modalità che una persona sceglie di utilizzare per interpretare le cause degli eventi che accadono nella propria vita.

Tre sono le sue caratteristiche distintive: permanenza, pervasività, personalizzazione (ricerche recenti ne hanno aggiunta anche una quarta, ovvero la pesantezza).

I pessimisti quindi sono coloro che credono che le cause degli eventi negativi che accadono siano: durature nel tempo (permanenza), interessino anche altri aspetti della loro vita (pervasività), e siano attribuibili alla propria responsabilità (personalizzazione) .

Gli ottimisti al contrario vedranno le situazioni negative estemporanee, limitate a quella determinata realtà ed esterne, almeno parzialmente, alla propria responsabilità.

Concludiamo ricordando che l’ atteggiamento positivo è una scelta, un lavoro che si fa con se stessi e le proprie convinzioni al fine di gestire la propria realtà, sviluppare continuamente il proprio benessere, e stando alle ultime ricerche, avere un cuore sano.

Se non altro dovremmo provarci.

Lo studio, pubblicato sulla Health Behavior and Policy Review, si può trovare cliccando al seguente link

Al seguente link potete trovare invece dei suggerimenti di lettura legati allo sviluppo personale, tra cui “Imparare l’ottimismo” di M. Seligman, in cui vengono spiegati in maniera approfondita e con doversi esempi i costrutti di ottimismo e di stile attributivo.

Un nuovo libro sulla formazione esperienziale

 9788891706751È fresco di stampa il nuovo libro sulla formazione esperienziale che vede come autori un team di professionisti del settore, non solo italiani, che hanno deciso (sotto il coordinamento del Comitato Tecnico Scientifico per la formazione esperienziale nato all’interno di Confindustria Padova) di condividere sistematicamente tecniche e strumenti rivolti a tutti coloro che sono interessati alla formazione e all’apprendimento delle persone.

Il manuale “Experential learning. Metodi, tecniche e strumenti per il debriefing” infatti è il terzo di una saga che ha visto la pubblicazione di altri due libri inerenti lo stesso tema: “Formazione esperienziale: istruzioni per l’uso” e “Small techniques, giochi d’aula e attività per l’apprendimento esperienziale” .

Questo terzo volume come si evince dal titolo, si concentra sulla fase del debriefing comune alle attività formative esperienziali, ovvero quel momento di riflessione post esperienza, che se gestito correttamente dà valore ed efficacia alla stessa.

Come afferma la docente universitaria Monica Fedeli (che ha gestito e curato tutta la prima parte del libro) nell’introduzione al manuale , il momento della riflessione è fondamentale in queste attività, poiché permette “una rivisitazione dell’esperienza vissuta con chiavi di lettura che emergono durante le attività proposte, aggiungendo direzioni di senso, interpretazioni nuove e punti di vista diversi rispetto a quanto è stato già vissuto.”

Un buon formatore / facilitatore è colui che supporta le persone in questo processo di scoperta del significato, facendo in modo che le stesse si pongano delle domande finalizzate all’introspezione e l’apprendimento e le contestualizzino al loro ambiente di riferimento.

Nel manuale si trovano dunque tecniche e strumenti affinchè questa fase possa essere facilitata e il de briefing gestito dal formatore/educatore in maniera consapevole ed efficace.

Con la pubblicazione del libro si amplia la panoramica sul mondo della formazione esperienziale che gli autori hanno voluto dare e condividere con gli addetti del mestiere, partendo dai primi due volumi precedentemente citati.

Tra i professionisti che hanno contribuito alla compilazione del manuale c’è anche Andrea Petromilli, consulente esperienziale di Performando, già intervenuto nei precedenti due volumi.

Il suo contributo si colloca all’interno di una collaborazione più ampia tra Performando e Confindustria Padova, che vede partecipe anche Andrea Di Lenna, in qualità di membro del Comitato Scientifico sulla Formazione Esperienziale, formatosi all’interno di Confindustria Padova.

Per visualizzare la scheda del libro cliccare qui

Sperimentazione attiva e nuove possibilità di cambiamento

a cura di Tommaso Cuccarolo

DSC_0102Le teorie più recenti sulle neuroscienze evidenziano come la sperimentazione attiva della persona durante il processo formativo sia una delle strategie più efficaci di apprendimento.
Tramite la sperimentazione di diverse metodologie e approcci, la persona può imparare a gestire il cambiamento con un’ottica di apprendimento continuo.
Partendo dalla teoria di D. Kolb, che individua quattro fasi distinte di apprendimento e pone rilevanza alla fase della sperimentazione attiva, Performando utilizza anche le metodologie del self-empowerment e della formazione esperienziale per promuovere tale approccio. È attraverso l’integrazione di diverse metodologie che si possono creare percorsi formativi solidi e specifici per ogni situazione.
Avvalendosi di una metafora, equivarrebbe all’immagine di due torrenti provenienti da due montagne opposte che scorrendo a valle giungono ad un punto in cui sfociano in un unico fiume, che aumenta la sua forza grazie all’acqua affluita.
Anche le due metodologie iniziano il loro percorso da fasi opposte ma sono parte dello stesso processo; sfruttano entrambe la forza della sperimentazione attiva con la differenza che nella formazione Esperienziale essa rappresenta l’innesco del ciclo, mentre nel Self -Empowerment è il punto d’arrivo.
L’approccio del Self-Empowerment è stato importato in Italia da Massimo Bruscaglioni, attuale docente presso l’università di Padova e esponente di riferimento della metodologia in Italia.
Gli anni 70’ videro la nascita dell’espressione “educazione degli adulti” e l’affermarsi di M.Knowles, il quale considera gli adulti come soggetti in apprendimento con specifiche prospettive individuali. Egli , insieme a Kolb, si può ritenere il capostipite della formazione esperienziale per gli adulti, dato che l’obbiettivo del suo insegnamento si può definire come progressiva acquisizione di autonomia nell’apprendimento.
Il Self-Empowerment si fonda sul processo di apertura di nuove possibilità detto” possibilitazione” che permette la prefigurazione positiva di sé rispetto ad un ambito specifico della propria vita.
La fase iniziale del processo consiste in un’auto osservazione riflessiva, svolta dalla persona, sui propri bisogni e desideri.
Una volta distinti i desideri, li si concettualizza nella vision e li si sperimenta in maniera positiva e reversibile.
La persona può avere così un’esperienza concreta di ciò che si era prefigurata nella vision, affrontando il cambiamento con maggiore consapevolezza nel prendere decisioni.
Il processo facilita la persona a compiere la scelta migliore per sé in maniera attiva, contribuendo a farle acquisire un maggior senso di controllo riguardo la propria auto-realizzazione.
Anche la formazione esperienziale permette alla persona di ristrutturare le proprie conoscenze durante il processo formativo.
Il punto di partenza è la sperimentazione attiva della persona che tramite l’esperienza concreta riesce a provare in un ambiente protetto i propri bisogni e desideri. Nell’ultima fase del processo, la persona lavora per concettualizzare concretamente l’apprendimento acquisito per applicarlo nel contesto lavorativo e personale.
La vision è un concetto che si trova in entrambe le metodologie e può essere considerato un’ulteriore punto in comune dopo quello della sperimentazione attiva.
La vision permette di ricategorizzare come una persona si percepisce in maniera positiva e realizzata, aiutandola a programmare obbiettivi futuri in un’ottica di speranza e pro-attività per il suo sviluppo personale e professionale.
Questo è uno dei punti fondamentali, come quello delle sperimentazione, che lasciano di più la traccia nella persona e sono punti di svolta per il raggiungimento dell’obbiettivo formativo.
L’integrazione delle due metodologie porta la persona a concentrarsi sui propri punti di forza, a reperire risorse interne, a prepararsi a sfruttare quelle esterne agendo attivamente, sfruttando al massimo il proprio potenziale e il contesto in cui si è inseriti.
Le sperimentazioni preparano la persona ad affrontare i potenziali ostacoli alla realizzazione delle vision, permettendo così di organizzare strategie efficaci per poi applicarle in esperienza concrete, senza farsi rallentare, nel processo d’apprendimento da essi.
Un punto di sviluppo del processo sta nel concepire la sperimentazione attiva come fulcro sul quale lavorare per incidere sull’apprendimento delle persone, permettendo di agire sull’esperienza concreta e sull’osservazione riflessiva come fase privilegiata per ampliare le proprie possibilità operative.

Percepirsi efficaci

a cura di Tommaso Cuccarolo

elefanteCosa so fare? Dove mi sento efficace?
Se una persona si pone queste domande sta interrogando le sue credenze di efficacia.
Ogni persona ne possiede di uniche e personali, sono compito specifico in quanto sono associate a specifiche e singole azioni delle persone che le compiono.
Le credenze di efficacia sono valutazioni soggettive riguardo le proprie capacità e possibilità di mettere in atto con successo alcuni comportamenti.
Una caratteristica affascinante di questo concetto è la sua fluidità e la sua continua dinamicità, infatti possono aumentare o diminuire di intensità e valore, in base a come si agisce su di esse.
Sono contesto dipendenti, non sono cioè solo legate al soggetto che le sperimenta ma anche alla sua esperienza passata e al contesto in cui agisce.

Il più feroce antagonista delle credenze di efficacia è la learned helplessnes, ossia l’Impotenza appresa. Essa indica lo sviluppo di un atteggiamento sostanzialmente rinunciatario che conduce a diminuire lo sforzo per tentare di modificare il corso degli eventi a seguito della ripetuta esposizione ad eventi incontrollabili. La metafora utilizzata per descrivere questo atteggiamento è quella dell’elefante abituato a sottostare alle regole del circo. Esso, a seguito di una vita in cattività, si dimentica della sua forza e si limita a stare fermo al suo posto senza esprimere le sue potenzialità.

Le credenze sono un’autovalutazione positiva o negativa con cui una persona si attribuisce o meno le risorse necessarie per completare il compito.
In pratica, se la persona si attribuisce la capacità di assumere alcuni comportamenti e si attiva concretamente per metterli in atto, avrà la percezione di poter esercitare un certo livello di controllo sugli eventi.
Al contrario , in mancanza di tale attribuzione, tenderà ad evitare il comportamento che le richiede.

Negli anni ‘90 Bandura reputava le credenze in grado di aumentare i livelli di: motivazione, attivazione di risorse cognitive e percezione di efficacia.
La presenza o l’assenza delle credenze di efficacia influenza: la scelta dei compiti e le attività che una persona può svolgere, le emozioni che si sperimentano quando ci si trova ad affrontare una situazione difficile, la quantità di resilienza profusa nel tempo per lo svolgimento di uno specifico compito e l’individuazione e la selezione di obbiettivi personali.
Le credenze sono così legate al contesto in cui si svolgono che, per individuarle, bisogna creare un ambiente sicuro e accogliente, un rapporto di fiducia e confidenzialità che permetta alla persona di esprimerle in maniera esplicita.
Se non si riesce a creare questo rapporto ,le credenze di efficacia uniche per ognuno, rimangono implicite e non si riesce ad agire su di esse in maniera accurata e precisa.

Aumentare la riflessività riguardo un determinato argomento, permette di incrementare l’attivazione cognitiva della persona riguardo le sue specifiche capacità.
Le credenze di efficacia sono determinate da esperienze passate in compiti simili e da esperienze vicarianti, che consistono nel confronto con persone e situazioni ritenute simili che influenzano direttamente le credenze di efficacia.

Le credenze possono essere determinate da: capacità immaginative in cui ci si immagina compiere un’azione, la persuasione verbale da parte di una fonte ritenuta rilevante, competente e degna di fiducia, da stati emotivi generati da una precedente attivazione cognitiva simile a quella che si sta vivendo, motivo per cui in presenza di compiti simili si tende a reagire emotivamente allo stesso modo.
Come sostiene Rottinghaus, le credenze di efficacia intervengono anche nei processi decisionali .
Minori sono le credenze di efficacia nelle decisioni, maggiore sarà il livello di insicurezza con cui si affronterà la decisione stessa, con conseguente procrastinazione e allontanamento del compito decisionale.
Esse giocano un ruolo fondamentale nella progettazione professionale perché possono influenzare le decisioni, le prestazioni e le energie impiegate per raggiungere un obbiettivo.

Vengono impiegate anche nella formazione esperienziale quando, tramite l’utilizzo di metafore formative pratiche, la persona fa esperienza concreta di un concetto che vuole essere impiegato nel contesto lavorativo.
Se si agisce sulle credenze di efficacia ,cercando di ristrutturarla con piccole sperimentazioni positive, si può intervenire sulla persona permettendole di acquisire più progettualità futura, più coscienza dei propri punti di forza e aree di miglioramento, più immaginazione e in generale più senso di autoefficacia prima di affrontare un compito.
La persona può acquisire più senso di controllo sulla situazione e decidere più razionalmente come intervenire per eseguire il compito assegnatogli.
Questo concetto è applicabile nella vita e nelle decisioni di tutti i giorni poiché solo oggi siamo quello che siamo.

Tutti noi abbiamo una storia creata da esperienze passate immutabili, intravediamo il domani e cosa vorremo fare in futuro ma, non avendo il controllo totale su entrambi, l’unico momento in cui possiamo da subito agire sulle nostre caratteristiche è il “qui ed ora”.

Il Piccolo Principe si mette la cravatta

a cura di Tommaso Cuccarolo

pclibroSe vi è mai capitato di prendere in mano un libro dal titolo attraente, leggerne le prime pagine e ricavarne così tanti significati da non riuscire a smettere di leggerlo … saprete cosa ho provato quando mi è capitato tra le mani “Il piccolo principe si mette la cravatta” di Borja Volaseca.
Il racconto è una metafora utile a comprendere valori, competenze e caratteristiche che un buon formatore dovrebbe possedere per poter svolgere al meglio il proprio lavoro.
Il presupposto consiste nel valorizzare le persone, perchè possano lavorare con maggiore soddisfazione e consapevolezza e incidere sui risultati dell’intera organizzazione.
Sentirsi parte di una dimensione più ampia aiuta ad identificarsi con l’azienda di cui si fa parte e permette ai dipendenti di percepire il contesto e gli obbiettivi in maniera differente, quasi allo stesso livello di quelli personali.
Proprio come avviene in una squadra dove ogni singolo giocatore collabora per poter sfruttare le caratteristiche migliori di ogni componente e vincere sugli avversari.

Il protagonista del racconto è Pablo Principe (alter ego dello scrittore), un giovane ribelle che cerca di inserirsi come responsabile del personale in una società di consulenza di sistemi informatici.
Per comprendere cosa è riuscito a fare utilizzerò, come metafora, la legge della conservazione della massa di Lavoisier che stabilisce che: “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”.

Senza togliere il piacere di scoprire poco a poco la storia, rivelo la sfida del Principe,una volta inserito nel ruolo di direttore del personale: “portare ad eccellenza un ambiente di lavoro che ormai non funziona”.

Il principe organizza un corso di formazione aziendale che chiede alle persone di affrontare con “spirito scettico”, affinchè non credano indiscriminatamente a quello che viene detto loro ma lo provino in prima persona, avvertendo che l’atteggiamento con cui affronteranno il corso sarà determinante per la sua riuscita.
Il vero laboratorio in cui avverranno le trasformazioni sarà dentro ogni persona.
Solo se riusciranno ad affrontare ciò che le blocca,diverso per ognuno, riusciranno ad apprendere nuove forme di comportamento.
Il protagonista individua come obbiettivo dell’intervento quello di mettere in discussione gli atteggiamenti con cui affrontano quotidianamente gli eventi. Gli sprona ad essere pro-attivi,cioè co-costruire il significato delle situazioni che sperimentano, smettendo di percepire gli eventi che vivono come causati dall’esterno bensì rivolgendosi al loro “interno” in maniera attivo- costruttiva.
La vera sfida è riuscirci nella pratica, imparando dai propri errori: ottenere risultati soddisfacenti è una questione d’impegno e allenamento.

Non si tratta di cambiare l’esterno, che sfugge al controllo, ma di cambiare l’interno che è alla nostra portata.
Attraverso la conoscenza, l’accettazione di se stessi e la comprensione, è possibile riuscire ad evolvere sperimentando nuove versioni della realtà.

Secondo il protagonista, la capacità di responsabilizzarci rispetto a ciò che si vive è qualcosa che gli adulti possono imparare in maniera cosciente.
Quando ci si assume la responsabilità della propria vita si capisce che le emozioni, come felicità o paura, dipendono da come si sceglie di interpretare quello che accade all’esterno.

L’intervento del Principe concede più autonomia,fa conciliare la vita lavorativa con quella personale e familiare, migliora il luogo di lavoro, suddivide più chiaramente i compiti da svolgere e concede una flessibilità maggiore. Così facendo fa raggiungere l’obbiettivo ai colleghi permettendogli di non essere più schiavi dello stress e dell’angoscia delle scadenze, rendendoli liberi di esprimere il loro meglio. Trasforma la stessa impresa che prima opprimeva i dipendenti in luogo di apprendimento e realizzazione professionale.

Dalla lettura del libro, si può avere un esempio di come raggiungere una maggiore serenità interiore con se stessi accettando e smettendo di soffrire per ciò che non si può cambiare.

Ognuno è artefice e fabbro della propria vita, è questo uno dei concetti che colpisce maggiormente in questo racconto. Riuscendo a riportare il focus dell’attenzione di ciò che accade in noi, senza cercare scuse e giustificazioni esterne, si può imparare delle esperienze ed acquisire maggiore consapevolezza e coscienza di chi si è e dove si vuole arrivare.
Come sto imparando stando all’interno di Performando :”Il cambiamento è un flusso, come un’onda dell’oceano, puoi seguirlo o subirlo; la bravura sta nel gestire il flusso continuo e trovare in esso la forza per creare onde positive, utili per raggiungere gli obbiettivi personali.”

Performando compie 10 anni: vieni a festeggiare con noi

logo_pfd_10_anni_14Correva l’anno 2004, Mark Zuckerberg creava Facebook, la sonda spaziale Spirit atterrava sul pianeta Marte, la Rolls Royce compiva 100 anni, la Grecia vinceva gli Europei di calcio e ad Atene si celebrava la XXIV edizione delle Olimpiadi. Nello stesso periodo, il simbolo del Pi Greco e il nome Performando si fondevano in un unico marchio, dando così l’avvio alla nostra storia.

In occasione di questo nostro primo decennale, vi invitiamo quindi a festeggiare con noi il prossimo giovedì 13 novembre dalle ore 17.30 presso la Sala Paladin di Palazzo Moroni, 1 a Padova.

L’incontro sarà un buon modo per ritrovare clienti (passati, presenti e, speriamo anche, futuri…), fornitori, partner ed amici, ai quali racconteremo ciò che Perfomando ha fatto in questi 10 anni di attività e che intende fare nei prossimi 10!

A conclusione dell’evento, previsto per le 19.30, sarà poi un piacere intrattenerci con voi per brindare assieme.

Vi aspettiamo!

Il team di Performando

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