Autore archivio: ammininstratore

Consigli di lettura_ Management e rugby: strategie vincenti

copAutore: Massimiliano Ruggero

Anno di pubblicazione: 2012

Editore: Gruppo 24 ore

Numero di pagine: 153

Costo: 18 euro

 

Recensione a cura di Sara Caroppo

Lavorare con le persone e per le persone è l’attività più difficile ma nello stesso tempo più gratificante che esista.

Ai formatori il lavoro quotidiano richiesto è quello di mettere le persone nelle condizioni di pensare in maniera diversa, facilitare quel “salto” di qualità che comunque inizierà e finirà sempre attraverso loro.

A chi si occupa di sviluppo e cambiamento è richiesto di parlare non solo con la testa delle persone, attraverso dei concetti, ma anche e soprattutto con la loro emotività, attraverso metodi alternativi.

Chi si occupa di formazione attraverso modalità non convenzionali sceglie questo percorso: arrivare alla testa attraverso le emozioni.

Chi si occupa di formazione utilizzando la metafora dello sport fa altrettanto.

Il gioco diventa quindi il passaggio, divertente ma impegnativo, verso nuove consapevolezze.

Il punto di partenza di questo libro è per l’appunto questo.

Lo sport, che come dice Sebastian Coe, “ha il mondo dentro”, è un tramite efficace perché le persone nelle organizzazioni possano fare il loro salto di qualità e avere un’opportunità di crescita.

Anche quando “crescere” vuol dire giocare.

In particolare l’obiettivo che si pone “Management e rugby: strategie vincenti” è quello di spiegare i punti di contatto tra la metafora del gioco del rugby e la formazione aziendale, e di come il rugby non sia solo una disciplina sportiva ma “un modo di vivere, di confrontarsi con l’altro” (J. Kirwan)

Il parallelismo tra il mondo del rugby e quello aziendale è efficace proprio perché il rugby mette le persone nella condizione di recuperare la loro parte emotiva, quella parte che quotidianamente mettono all’angolo, al fine di esaltare logiche di tipo manageriale e quindi più prettamente razionali.

Oltre al risveglio della parte più viscerale, il rugby si presta bene anche ad altri parallelismi, che l’autore descrive in maniera dettagliata nel suo libro e che quindi non sveliamo.

Nel libro infatti Massimiliano Ruggiero, manager di una grande banca italiana e in passato giocatore professionista in questa disciplina, affronta l’argomento sia da un punto di vista teorico (i primi tre capitoli), sia da un punto di vista più pratico, fornendo ai lettori, dal quarto capitolo, una serie di interviste fatte a personaggi sia del mondo del rugby che aziendale, in cui viene raccontata la loro esperienza personale riguardo questo connubio.

Tra le persone intervistate troviamo anche Andrea Di Lenna, direttore di Performando e John Kirwan, ex All Blacks e testimonial sportivo per gli eventi formativi di Performando riguardanti i temi del teamcoaching e del team building.

Nel libro è presente anche un Appendice in cui c’è la descrizione analitica del gioco del rugby, sia dal punto di vista dei ruoli che delle regole, altro elemento importante questo per capire come questo sport sia anima ma anche tecnica.

Il passaggio da non perdere:
la parte più coinvolgente sono sicuramente le interviste, pezzi di storie in cui i protagonisti fanno trasparire la loro visione del rugby come un ponte tra l’essere e il diventare.

A chi lo consigliamo:
a chi è convinto che per innovare e creare bisogna pescare da mondi diversi, attraverso un atteggiamento di apertura verso il nuovo ma allo stesso tempo di critica, per capire cosa si può adattare al proprio mondo e cosa no.

L’onda_ Die Welle

47221Regista: Dennis Gansel

Interpreti principali: Jürgen Vogel,Frederick Lau

Anno di uscita: 2008

 

Recensione a cura di Sara Caroppo

Ci sono scene di film o parti di libri che ti appassionano a tal punto che vorresti uscissero dalla finzione e accadessero nella realtà.
Ci sono film o libri invece che ti raccontano delle storie che preferiresti fossero solo finzione, e invece sai che hanno del vero.

Vedere The Wave dà una sensazione del genere, perché più lo guardi più ti rendi conto che rispecchia una realtà magari estrema, ma comunque relativa alla nostra natura umana.
The Wave è un film uscito pochi anni fa ed è ispirato ad una storia realmente accaduta in Germania nel 1967, quando un professore di una scuola della California dà vita ad un esperimento per “studiare gli effetti, sulle singole coscienze, di una disciplina di gruppo, inserita in un contesto sociale autocratico.” Questo all’atto pratico consiste nel voler vedere come si forma lo “spirito di squadra” e come vive un gruppo, quando questo è guidato da un leader autoritario.
Studiare questo, per la classe del professor Rainer Wenger, è avere un esempio concreto di come i regimi autoritari (il nazismo nel caso specifico) spingano le persone a compiere atti atroci.

E soprattutto risponde alla domanda: oggi questo sarebbe ancora possibile?

Il film dà la risposta e ci aiuta a capire i meccanismi che si nascondono dietro ai comportamenti di gruppo quando questo è mosso da alcuni valori piuttosto che da altri.

Le considerazioni che emergono, vedendo un film del genere, sono molteplici.

Possono essere relative a come sia facile muovere un gruppo contro qualcuno e basare il senso di appartenenza su questa conflittualità latente . Con la domanda: quali sono gli effetti a lungo termine di un simile approccio?

O ancora, si posso fare considerazioni sulla figura del leader, che ponendosi in maniera eccessivamente autoritaria e poco autorevole, perde il controllo dei suoi studenti. Con la domanda: come avrebbe potuto evitare che la situazione degenerasse?

Lasciamo a chi è interessato alla visione del film lo spazio per ulteriori considerazioni o domande.

La scena da non perdere:
le fasi attraverso le quali avviene l’ascesa dell’Onda.
Dalla scena in cui i ragazzi scelgono il nome da dare al gruppo, a quella in cui decidono di riconoscersi in una divisa, alla realizzazione del saluto di riconoscimento come rito, e cosi via….

A chi lo consigliamo:
a chi fa parte di un gruppo o lo gestisce, e a chi è appassionato delle dinamiche che si instaurano tra le persone.

All Blacks Don’t Cry. A Story of Hope.

21548684Autore: John Kirwan

Anno di pubblicazione: 2010

Editore: Penguin Group

Numero di pagine: 223

Costo: $42.00

 

Recensione a cura di Sara Caroppo

Successo, forza , coraggio…cosa sono?

Quello che traspare, leggendo le pagine dell’ultimo libro di John Kirwan, ex All Black e ora allenatore di rugby di fama mondiale, è un insieme di nuovi significati, che chi leggerà queste pagine si renderà conto essere frutto di un percorso personale, profondo e necessario, che ha permesso all’autore di risalire dagli abissi della depressione che l’ha colpito anni fa.

Per spiegarsi meglio.

Perché non iniziare a misurare il successo non in base a quello che otteniamo materialmente una volta raggiunti i nostri obiettivi, ma in base al numero di persone che ci stimano?

Perché non vedere il coraggio come una conquista quotidiana invece che immaginarlo come meta di azioni non ordinarie?

E infine…perché non definire la forza come l’accettazione di quelle che a primo impatto sembrerebbero delle debolezze?

Darsi l’opportunità di cambiare il modo di vedere le cose, di vedersi per quello che si costruisce e si vive quotidianamente e premiarsi per questo, piuttosto che giudicarsi per quello che si sarebbe potuto fare e non si è fatto, sono le chiavi di accesso alla porta del benessere, del proprio equilibrio emotivo.
Un benessere inteso come viaggio continuo, di scoperta verso se stessi e riscoperta verso le piccole cose, che Kirwan racconta di aver intrapreso per combattere la sua depressione, che lo colpì proprio negli anni d’oro della sua carriera, quando tutti lo ritenevano un grande giocatore di successo e nessuno si sarebbe mai immaginato quante sofferenza e turbamento si nascondessero dietro quella maglia nera da guerriero.

Il libro è una testimonianza, un messaggio di speranza per coloro che soffrono di depressione (secondo le statistiche mondiali è una malattia che colpisce circa 121 milioni di persone) e non solo.
Il libro infatti è rivolto anche a tutti coloro che sono vittime inconsapevoli delle proprie preoccupazioni e incertezze, dello stress; della tendenza a voler guardare troppo indietro alla ricerca del perché di tutto quello che è stato nella loro vita, o al contrario,troppo avanti, alla frenetica ricerca di qualcosa in più da fare o da avere. Le persone che sono in continua “lotta contro il loro tempo” e che non fanno altro che negarsi la possibilità di vivere il presente.
Di vivere e viversi.

…di cosa è fatto il presente?

Delle piccole cose.
Di tanti singoli momenti che siamo troppo pre-occupati per considerare.
Di tanti singoli momenti che viviamo da così tanto tempo che ormai li diamo per scontati, dimenticandoci invece che una volta li abbiamo voluti proprio perché ci facevano star bene.
Perdiamo il significato di questi, perdiamo per strada la possibilità di stare meglio.

Il consiglio che Kirwan dà a tutti è proprio quello di ripartire dalla scoperta delle proprie “little things”.
“Sentire” la doccia e gustare una tazza di caffè per esempio sono state le sue piccole cose ritrovate, quei frangenti di vita quotidiana che seppur quotidiani, nella lotta contro i suoi fantasmi, avevano perso “vita”.

Questo processo di riscoperta, spiega Kirwan nel libro,non vuole certo essere la soluzione al problema, ma può essere in grado di dare quella sensazione di respiro e di sollievo necessario per uscire dal tunnel della depressione, e perchè no?,evitare che chi sta bene ma è vittima dello stress e preda delle sue preoccupazioni, ci si avvicini anche solo per sbaglio.

Di questi consigli, il libro è pieno.
Kirwan ci regala le sue domande e le risposte che è riuscito a darsi, ci induce a fare delle considerazioni a partire dalle sue riflessioni, ci racconta pagina dopo pagina la sua storia, perché ognuno di noi ne faccia buon uso.
E perché, chi sta percorrendo il tunnel da cui lui con coraggio è uscito, sappia che per quanto questo possa essere lungo e buio, è comunque un tunnel con una fine.

Il passaggio da non perdere:
“ci alleniamo ogni giorno; quando andiamo in palestra dedichiamo un’ora e mezzo al nostro fisico.Perché non siamo in grado di andare da uno specialista e dedicare un’ora e mezzo alla nostra mente?” (trad.)

A chi lo consigliamo:
a chi pensa che gli All Blacks non piangono.

* La storia di John Kirwan, la sua battaglia, le sue paure e il suo ritorno alla vita sono diventate un progetto per aiutare chi soffre di questa malattia e sono raccontate in un cortometraggio (in inglese) diretto da Julian Shaw

Volevo solo dormirle addosso.

dormRegista: Eugenio Cappuccio

Interpreti principali: Giorgio Pasotti, Cristiana Capotondi.

Anno di uscita: 2004

Dall’omonimo romanzo di Massimo Lolli

 

Recensione a cura di Cristiano Lai

Marco Pressi, giovane e ambizioso formatore del personale di una multinazionale, si ritrova dinanzi ad una proposta che non può rifiutare. L’azienda per la quale lavora è in crisi, i venditori non lavorano come dovrebbero e lo stesso amministratore non segue più il lavoro con il dovuto impegno. I suoi superiori nel corso di una riunione gli comunicano che dovrà, in un arco di tempo ridottissimo, far uscire dalla produzione 25 dipendenti di vario livello senza creare tensioni visibili. Se ce la farà avrà un avanzamento e otterrà un cospicuo riconoscimento in denaro. In caso contrario lo attende un portasigarette. Da quel momento la vita di Pressi cambia. Dovrà attrezzarsi per convincersi che lo slogan “People First” che caratterizza la sua azienda non è altro che falsità. Lui non può e non deve provare compassione per nessuno. Il film s’incentra sull’evoluzione del protagonista che si trasforma da figura stimata e benvoluta in azienda a spietato “tagliatore di teste”, guardato con sospetto e timore da tutti. Anche la sfera privata del protagonista subirà un notevole cambiamento; sempre occupatissimo inizierà a trascurare la sua ragazza Laura, la sorella e la madre. Il film ci offre un taglio cinico sul mondo del lavoro e sulla distorsione comportamentale generata da target ambiziosi e sfidanti. Uno spaccato di vita aziendale, che in questo caso assume una dimensione patologica, dove parole come stima (“Ti stimo”, infatti, è la frase che il protagonista ripete più spesso) vengono ripetute all’infinito sino a perdere completamente il loro valore e significato reali e a divenire formula vuota da utilizzare quando ben poco si ha da dire ad un superiore o ad un collega.

La scena da non perdere:
Il dialogo tra Pressi e il responsabile dell’area marketing dell’azienda, dove quest’ultimo offre al protagonista una lezione di raro cinismo, aprendo in lui un conflitto interiore che solo nel finale arriverà ad una risoluzione.

A chi lo consigliamo:
A tutti i responsabili delle risorse umane e a chi è interessato alle tematiche riguardanti l’azienda e le dinamiche sociali in essa implicate.

Steve Jobs. L’uomo che ha inventato il futuro.

Steve_Jobs_L_uomo_che_ha_inventato_il_futuroAutore: Jay Elliot

Anno di pubblicazione: 2011

Editore: Hoepli editore

Numero di pagine: 240

Costo: 19,90 Euro

 

Recensione a cura di Sara Caroppo

Se a ognuno di noi chiedessero chi era Steve Jobs certamente saremo in grado di rispondere correttamente, citando l’ormai celebre discorso per i laureati all’Università di Standford, piuttosto che elencando le sue creazioni di successo, come l’iphone e l’ipad.

E alla domanda “che tipo di leader era Steve Jobs?”, come potremmo invece rispondere?

Jay Elliot, ex Senior Vice Presidente di Apple prova a darci una mano in questo libro; prova a raccontarci pagina per pagina non solo chi era Jobs, ma chi dovrebbe essere, o quantomeno provare a diventare, chi ha il compito di gestire dei gruppi di persone, o di portare avanti un’azienda, o molto più semplicemente chi vuole realizzare un obiettivo ambizioso.

Ma allora questo libro è una biografia o un manuale di istruzioni per leader?
Per qualcuno potrebbe trattarsi più del primo caso, per qualcun altro più del secondo.

Noi lasciamo alla prefazione di Luca De Biase (Il Sole 24 Ore) contenuta nel libro il compito di rispondere a questa domanda:
“Quando un imprenditore coltiva la sua azienda come un artista lavora alla sua opera, quando vede quello che la sua azienda può creare e trascina tutti a realizzarlo, allora il leader non è un capo: è un maestro di vita che conduce tutti a fare qualcosa di grande. In quel caso, non c’è differenza tra economia e cultura. E l’innovazione non è l’insieme delle novità: ma la costruzione del futuro.”

In sintesi quindi vi consigliamo di leggere una storia di vita che spinge ognuno a scrivere la propria.

Il passaggio da non perdere:
il paragrafo “Ricompensare i pirati” e l’immagine riportata sono un esempio concreto di quello che si intende (o si dovrebbe intendere) nei libri di management sotto la dicitura “valorizzazione delle risorse”. Steve Jobs decise di far incidere all’interno dei case dei primi Mac le firme dei membri originari del team incaricato del progetto . Gli acquirenti non avrebbero mai visto quegli autografi, ma chi aveva messo il proprio nome sapeva che c’erano.
Questo per Steve Jobs significava essere coerente con la filosofia della sua azienda a proposito della valorizzazione di talenti e prodotti.

A chi lo consigliamo:
a chiunque, letto questo breve esempio, si è fermato un attimo a pensare a quanta coerenza ci sia tra il suo ruolo professionale e le sue azioni quotidiane al lavoro.

La gente che sta bene “live”!

Recensione a cura di Andrea Di Lenna

la-gente-che-sta-bene-258Autore: Federico Baccomo Duchesne

Anno di pubblicazione: 2011

Editore: Marsilio editore

Numero di pagine: 272

Costo: 17,50 Euro

Un libro molto divertente da portare con sé per sorridere (a denti stretti…) e riflettere (molto!) sulla vita del manager, interpretata dal personaggio di Giovanni Sobreroni, un affermato avvocato di un importante studio legale internazionale . La sua è una vita costantemente caratterizzata da alternanti situazioni di vera e propria esaltazione professionale, nel caso della partecipazione a feste mondane con persone dell’alta società con abiti e macchine di lusso, e momenti in cui sfiora il baratro di una vita familiare che si assottiglia sempre di più e di una vita professionale ad elevatissimo rischio di sopravvivenza .

L’autore, un giovanissimo Federico Baccomo al suo secondo libro dopo “Studio illegale”, scrive una brillantissima parodia sulla canonica e moderna vita del manager, tutta orientata verso il successo ed inevitabilmente manchevole verso la vita privata e familiare. Il protagonista del romanzo descrive così la vita di un po’ tutti noi, con uno humor che richiama quello del miglior Stefano Benni arricchito di una grandissima capacità di descrivere gli spesso assurdi comportamenti di un manager in carriera.

Ho avuto il piacere di conoscere Federico Baccomo alla manifestazione organizzata da Aidp Triveneto “ Libri sotto le stelle”, tenutasi lo scorso Luglio presso la splendida Villa Canal a Grumolo delle Abbadesse, in provincia di Vicenza, nella quale mi è stato chiesto di intervistare proprio l’autore. Avevo appena finito di leggere il suo “La gente che sta bene”, che avevo finito in poche ore con grandissimo piacere e divertimento, e mi avvicinavo quindi all’intervista con sensazioni decisamente positive nei confronti di chi aveva scritto questo brillante romanzo. Devo dire che, rispetto alle mie sia pur rosee aspettative, la realtà è stata decisamente superiore: Federico, a soli 32 anni, ha intrattenuto una platea di manager, quasi tutti provenienti dalle Risorse Umane, con il racconto di un libro che ripercorre la sua vita professionale proprio all’interno di un importante studio legale. La descrizione, ricca di spassosissimi aneddoti, è stata caratterizzata da vero spirito cabarettistico che ha coinvolto e divertito i presenti dall’inizio alla fine. La presentazione, durata una mezz’ora circa, si è conclusa con un prolungato applauso da parte dei presenti e ha preceduto una “sessione” di autografi che si è protratta per tutta la serata.

Quanto appena descritto non è altro che una conferma della valutazione positiva del romanzo di Baccomo “La gente che sta bene”. Leggetelo, non ve ne pentirete!

Il passaggio da non perdere:
pagina 155-156, quando descrive le problematiche di sicurezza in aereo alla sua vicina di posto: un vero passaggio da cabaret!

A chi lo consigliamo:
a chiunque abbia un po’ di esperienza in azienda, o in qualsiasi realtà professionale, e che abbia pensato almeno una volta di mollare tutto, come ha fatto nella vita reale Federico Baccomo, in arte Duchesne.

“Misure straordinarie”, di Tom Vaughan

misure_straordinarie_tramaRegista: Tom Vaughan

Interpreti principali: Harrison Ford, Brendan Fraser

Anno di uscita: 2010

Distribuzione: Sony Pictures Releasing Italia

 

 

 

 

Recensione a cura di Sara Caroppo

“Smisero di sperare in un miracolo. Lo fecero.”
Questo è il sottotitolo del film: Misure straordinarie, tratto dal libro “The Cure” di Geeta Anand.

La cosa più sorprendente di questo film è che narra di un miracolo realmente accaduto.

Tutto ha inizio quando John Crowley si trova a fare i conti con una rara e incurabile malattia genetica, il morbo di Pompe, che ha colpito i suoi due bambini , e decide di rischiare il tutto per tutto investendo anima e corpo in un progetto a prima vista “impossibile” con l’obiettivo di salvare loro la vita.
Per raggiungere questo obiettivo decide di farsi aiutare da un brillante ricercatore, che ha in mano una possibile soluzione del problema ma che ha sempre rinunciato a metterla in pratica perché poco in sintonia con le rigide linee giuda delle case farmaceutiche.
Senza non poche difficoltà i due fondano una compagnia biotecnologica che ha come obiettivo lo sviluppo di una medicina salvavita. Il primo lo fa per salvare i figli, il secondo per mettere alla prova se stesso e le sue teorie; la loro improbabile alleanza alla fine si trasforma in un reciproco e profondo rispetto che li porta finalmente a realizzare il farmaco e a rendere la malattia da mortale a curabile.

La scena da non perdere:
Al di là del messaggio che il film trasmette su quanto sia relativo a volte il concetto di “impossibilità”, tra le varie scene interessanti, quella che mi ha colpito è la riunione di vendita che i due protagonisti fanno con una società esterna per farsi comprare, e garantirsi quindi l’afflusso di denaro necessario per andare avanti con la sperimentazione.

L’ obiettivo è vendere. Il meta obiettivo è trovare il farmaco salvavita.

Ecco allora che troviamo lo scienziato, che ha sempre preso qualsiasi critica alle sue ricerche come un attacco personale, gestire in maniera efficace le obiezioni che vengono rivolte al suo progetto e il padre, nonostante sia in gioco la vita dei suoi figli, riuscire a confrontarsi con i suoi interlocutori in termini tecnici e molto razionali arrivando a parlare, in riferimento al rischio di mortalità di chi usufruirà del farmaco, di “perdita accettabile”.
È un confronto ben gestito il loro, che porta i rappresentanti della società acquirente a firmare il necessario accordo.

Un fermo immagine inoltre andrebbe fatto ai minuti finali del film.
L’espressione dello scienziato nell’osservare i bambini del socio che iniziano a mostrare i primi effetti del farmaco di prova , ci ricorda quanto sia importante tenere a mente il perché facciamo il lavoro che abbiamo scelto di fare.

Se ci ricordiamo il senso, ha senso tutto il resto.

A chi lo consigliamo:
A chiunque lavori all’interno di un’organizzazione; nel film si parla di relazioni, di obiettivi e di risultati.
Ma soprattutto si parla di fare a volte un passo indietro e di usare il buon senso, più che le questioni di principio.

La connessione tra il marketing e le risorse umane

a cura di Alessandra Marzaro

300x300Mondo del marketing e mondo delle risorse umane.
C’è un punto di contatto, un collegamento tra questi due universi?
Sì, c’è, ed è un collegamento rappresentato da una catena forte e solida, ma anche flessibile e mutevole: la catena umana.
Sono le persone infatti che costituiscono l’intersezione comune tra questi due ambiti.
L’analogia tra le due dimensioni emerge perché i collaboratori interni all’organizzazione, di cui si occupa la funzione risorse umane, possono essere visti da questa e dal management come dei veri e propri clienti interni, verso cui rivolgere messaggi e comunicazioni strutturate, tanto quanto le persone esterne all’impresa identificate come potenziali consumatori.

In particolare un ramo del marketing, il cosiddetto Internal Marketing (IM o Marketing Interno), si occupa proprio della trasmissione dei valori e dei principi aziendali ai clienti interni, ossia i dipendenti, soddisfacendone i bisogni, e puntando a un elevato livello di coinvolgimento del personale.
L’IM deve essere posto in essere dal management e dalla funzione risorse umane fin dall’inizio poiché è orientato a far sentire il singolo collaboratore parte integrante dell’organizzazione per fare in modo che comprenda l’insostituibilità e l’importanza del suo contributo per la realizzazione del fine ultimo dell’organizzazione, ossia fornire un servizio per creare profitto. È dunque necessario costituire innanzitutto una solida base con i collaboratori interni al fine di ottenere un’altrettanto significativa soddisfazione esterna.
L’importanza della relazione interna tra le risorse umane precede dunque il marketing del prodotto o del servizio finale che l’organizzazione propone, poiché accompagna e coltiva la qualità interna della struttura organizzativa di cui fanno parte le risorse umane. L’espressione di Richard Normann è particolarmente esplicativa:”Quello che non potete vendere al vostro personale non potete venderlo neppure al cliente”.
Attraverso questo approccio, tutti i collaboratori, dall’addetto vendita all’addetto alla logistica, all’amministrativo, una volta ricevuto il messaggio attraverso modalità personalizzate a seconda dell’area in cui operano (di fatto è come stabilire la modalità di comunicazione verso il target di consumatori a cui ci si rivolge nel marketing classico), riescono ad allinearsi con l’organizzazione e la sua filosofia, a rispecchiarsi nei suoi valori e di conseguenza sono portati a trasmettere appieno lo stile aziendale anche ai clienti esterni cui è indirizzato il prodotto o servizio.
La funzione risorse umane, per avere un quadro completo del clima aziendale e per poter agire, deve dunque occuparsi di comprendere le esigenze e i bisogni dei clienti interni ascoltandoli attivamente attraverso colloqui e riunioni, motivando i collaboratori, e monitorando costantemente i risultati.

Di conseguenza, viene collocata in primo piano anche l’importanza delle relazioni sia orizzontali sia verticali con l’integrazione di quello che viene chiamato Relationship Marketing: nel senso economico del termine si intende la cura della relazione con il cliente al fine di creare un rapporto sempre più personale orientato alla fidelizzazione. Di conseguenza, dal punto di vista delle risorse umane in modo esattamente parallelo, si intende la capacità dell’impresa di rendere consapevoli i collaboratori di essere allo stesso tempo fornitori e riceventi di un servizio scambiato reciprocamente e dell’importanza di tessere relazioni intraorganizzative utili e produttive per essere un team consolidato.

Con tale approccio integrato e con la guida e la formazione della funzione hr, ogni collaboratore può quindi diventare consapevole dell’importanza dei legami che si instaurano nel microcosmo dell’organizzazione. Di conseguenza a beneficiare della qualità dell’intreccio di relazioni che nascono sono gli ambiti della comunicazione interna, del clima e soprattutto la stessa performance dell’organizzazione, proprio perché collaborazioni e sinergie magari prima non valorizzate vengono accresciute e contribuiscono a far emergere skills dei singoli e di squadra stimolando nuove idee e suggerimenti.
Poiché dunque il sostentamento del business è apportato dai consumatori sia interni (collaboratori) sia esterni (clienti) all’organizzazione mi sembra opportuno riportare una citazione di Ann Handley per dare alla parola “consumatore” entrambi i significati: ”Fa in modo che il consumatore sia l’eroe della tua storia”.

Ed è proprio curando anche i concetti dell’Internal Marketing e del Relationship Marketing che Performando, fedele alla sua mission, con tecniche di formazione esperienziale, coaching ed eventi, si focalizza sulle relazioni e sulle persone che compongono l’organizzazione: infatti identificandole come la chiave principale di tutte le strutture organizzative, lo scopo di Performando è quello di valorizzarle appieno e far ottenere performance sempre migliori a livello personale e organizzativo per raggiungere risultati tangibili.
Agendo direttamente sui componenti interni, Performando si concentra sullo sviluppo delle loro potenzialità, rendendo le persone più consapevoli di sé e degli altri e facendo acquisire loro nuove competenze personali e nuovi punti di vista da mettere in pratica nella realtà organizzativa.
In questo modo vengono poste le premesse per far sì che i membri dell’organizzazione riescano a intraprendere un percorso di crescita personale orientato al benessere organizzativo e al raggiungimento degli obiettivi aziendali comuni.

Sì, ma tu, che lavoro fai, esattamente?

 a cura di Francesco Apuzzo

fapzzartcMi trovo spesso a provare a rispondere a questa domanda.

Appunto, quale lavoro? Il formatore? Il consulente? Il docente?

Giro, vedo gente, mi muovo, conosco, faccio delle cose (cit.)?

Non essendo ancora una professione riconosciuta, almeno da un punto di vista istituzionale e non essendoci un esame di abilitazione pubblico o un albo, risulta spesso complesso definirsi, almeno nei confronti di chi non sia del settore (che peraltro non ha confini ben precisi). Esistono Enti che raggruppano i professionisti per fornire competenze specifiche e rilasciare, dopo aver sostenuto prove ed esami, attestati “privati”,  e al contempo favorire la conoscenza reciproca. Successivamente credo siano i clienti a fornire le certificazioni più importanti necessarie per proseguire, anche semplicemente sotto forma di feedback scritti consegnati alla fine di ogni intervento, nonchè  a raccontare ad altri le esperienze vissute e quindi a rendere più definito questo lavoro.

Forse nemmeno i termini utilizzati sono quelli più adeguati al ruolo, specialmente “formatore”. Personalmente preferisco altre variabili, ad esempio “facilitatore”: entrando nello specifico, ci sono altre definizioni del ruolo già ben codificate, quali Coach e Counsellor (normalmente se si lavora dall’esterno all’azienda/gruppo/ente), Tutor e Mentor (se si lavora direttamente dall’interno dell’azienda/gruppo/ente), ma a tutt’oggi le definizioni spesso si sovrappongono.

In questi anni, da solo o insieme a colleghi, le ore di formazione e consulenza erogate sono state molte, ho incontrato nei vari corsi almeno 3500 persone (dato di qualche anno fa, quando tenevo il conto preciso), alcune per più ore, anche 140 in un unico percorso, altre per sole 2 ore. Ho avuto modo di interagire con imprenditori, dirigenti, liberi professionisti, startupper, lavoratori dipendenti, apprendisti, persone in fase di ricerca attiva di lavoro, studenti delle scuole superiori e universitari e molti altri. Il costante contatto con queste diverse tipologie di utenze mi ha permesso di maturare una certezza: questo lavoro è vivo e in costante mutamento, e permette di dare e ricevere continuamente opportunità di miglioramento. Ad esempio, una singola semplice slide sulla comunicazione, utilizzata come supporto in aula, con le stesse parole o immagini, genera sempre percezioni diverse e il suo significato va gestito volta per volta, senza aspettarsi che faccia da sola il suo lavoro.

Prepararsi per improvvisare, si dice nell’ambiente.

Ah, e dove vai ad insegnare prossimamente?

Spesso arriva anche questa domanda, e pure in questa situazione cerco di evitare il termine insegnamento e raccontare diversamente i contenuti e le modalità di questo lavoro.

In senso generale si lavora in effetti sull’apprendimento, i cui vari livelli sono stati approfonditi negli anni da sociologi, antropologi, psicologi, ricercatori e messi poi a confronto con i livelli neurologici analizzati dalla medicina e dalle neuroscienze.

Oltre a questi studi ho maturato una idea personale riferita all’esperienza avuta fino ad ora.

L’intervento ad un corso di formazione, o ad una attività di consulenza, è preceduto da una accurata fase di preparazione, relativa sia al contenuto da presentare che alla conoscenza dei destinatari. Una volta entrati in aula, sono necessarie più rivisitazioni in corso di ciò che si voleva trasmettere e di come lo si voleva fare, tutto viene modificato dall’interazione dialettica che si genera tra il consulente e i clienti.

Quali slide userai?

Preparo una presentazione dai contenuti tecnico pratici personalizzata, ma non so bene se ne rispetterò l’ordine, dipende da cosa succederà in aula, anzi forse cercherò una slide che non pensavo di usare

Quali esercizi di formazione esperienziale utilizzerai?

Stessa risposta.

Ah ecco, ora capisco perché hai sempre un borsone con te e la macchina piena di oggetti

Ma imparano?

Altra domanda che sento spesso. Rispondo che il cambiamento individuale, ovvero la scelta di imparare, è legata sempre ad una sola parola: motivazione. Se sono, o mi hanno, motivato, allora posso imparare, apprendere, conoscere, utilizzare, sperimentare, cambiare, migliorare e via così.

If not, non c’è corso di formazione che possa fare qualcosa, a meno che il corso non sia proprio sulla motivazione!

Credo si possano distinguere almeno due atteggiamenti con i quali chi fa questo lavoro si trova ad interagire: quello dei “Modifier” e quello degli “User”.

In un determinato ambiente ci si può trovare ad essere Modificatore o Utilizzatore di strumenti di lavoro, di procedure, di strategie, etc. e quindi avere diversi gradi di interesse verso i temi proposti.

Non è meglio o peggio essere uno di questi due tipi, quello che importa è esserne coscienti e capire se corrispondono alla propria motivazione.

Un po’ come avviene per la distinzione tra Leader e Follower.

Anche il Follower deve impegnarsi per perseguire gli obiettivi, al pari del leader, in termini di costanza e impegno.

In alcuni casi si è quindi Modifier (Leader) in altri User (Follower) e la formazione deve tenere conto delle situazioni personali, per essere sicura di “fare del bene”. Questo vale anche per il formatore stesso, che ogni giorno dovrebbe comportarsi in entrambi i modi. Occorre domandarsi sempre cos’altro potrei fare per essere ancora più utile per le persone che mi ritrovo di fronte.

La situazione più complessa da gestire è infatti quando si cerca di trasferire dei contenuti a persone che non sanno se essere Modifier o User, e quindi non sono in condizioni di rendere al meglio poiché’ non sono né una né l’altra cosa.

Oppure vorrebbero essere Modifier (o sono stati assunti/scelti per esserlo) e si ritrovano ad essere User, o peggio ancora, sono stati assunti per essere User e poi sono stati investiti, senza chiedere, del ruolo di Modifier, vuoi per anzianità aziendale o solamente pensando di fare cosa gradita.

Ma anche no.

Anche in questi casi c’è, per fortuna, la possibilità di trasmettere segnali di miglioramento: può essere sufficiente partecipare ad un corso per capire che quello in essere non sia il posto di lavoro giusto, che lì non si sia nè modifier nè user. A questo punto il ruolo del formatore si trasforma magicamente in quello del consulente, che può intervenire in maniera diretta e aiutare il lavoratore (e quindi l’azienda) ad essere più “realizzati” e di conseguenza performanti.

In che modo?

Permettendo ai partecipanti di esplorare l’area del “non sapevo di non sapere” personale, della consapevolezza, di tutta una serie di temi che molto spesso sono diversi dal titolo del corso.

L’obiettivo di questo lavoro, inteso come corsi di formazione, consulenza manageriale e organizzativa, è quindi quello di poter generare una situazione in cui ognuno possa essere sincero sia con se stesso che con l’azienda (e viceversa, ma questo comporterebbe scrivere un altro articolo). Solo acquisendo questa consapevolezza il cliente riuscirà ad avviare, con il supporto del facilitatore/formatore/consulente e in autonomia, il percorso fondamentale di sviluppo delle nuove conoscenze, capacità e competenze..

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