Autore archivio: ammininstratore

“Brachetti che sorpresa”: Francesco Scimemi torna a teatro

brachetti-che-sorpresaUn nuovo tour teatrale per Francesco Scimemi, Illusionista e intrattenitore fuori dagli schemi che collabora con Performando da diversi anni nei percorsi sulla gestione delle situazioni difficili e del problem solving non convenzionale.

Questa volta Scimemi è in teatro con il nuovo show di Arturo Brachetti: “Brachetti che sorpresa!”.

Per tutto il mese di Aprile l’illusionista palermitano insieme con altri personaggi insoliti ed eclettici, accompagna l’amico e collega Brachetti in giro per i teatri delle maggiori città di Italia.

Tema dello spettacolo, il quick change, ovvero quell’arte trasformista che ha reso Brachetti celebre al pubblico internazionale e che questa volta lo porta a cambiare d’abito, e soprattutto anima, davanti agli spettatori, essendo lo spettacolo ambientato in un deposito bagagli di un aeroporto internazionale colmo di valigie, casse e bauli.

A Brachetti il compito di trasformarsi in pochissimo tempo in un cappello, in delle scarpe e in tutti quegli oggetti ricchi di storie raccolte nei lunghi viaggi.

Ancora a lui il compito di ricordarci, attraverso questi cambi repentini che coinvolgono pochi abiti e giusto qualche oggetto , che “con poco si può fare tutto, basta lasciarsi andare alla fantasia”.

La performance però non finisce qui.

Ad alternare i momenti di trasformismo ci sono il sand painting, in omaggio al cineasta David Lynch, i giochi di ombre da teatro d’altri tempi, “a dimostrare come la magia del teatro si possa manifestare anche con semplici gesti di prestigio handmade”, e gli interventi di Scimemi, Luca Bono e Luca & Tino.

Uno spettacolo a 360 gradi, che coinvolge gli spettatori , li porta in un clima di fantasia e ne stimola l’inventiva.

Per avere maggiori informazioni sullo spettacolo e conoscere date e luoghi dell’evento cliccare qui

Tecnologica-Mente. La difficile convivenza uomo-informatizzazione negli ambienti di lavoro

a cura di Monica Turdò

Tecnologia e quotidianità

bci2011Il 24 gennaio 1984 venne presentato il secondo modello di personal computer marchiato Apple, il primo Macintosh. L’arrivo di questo rivoluzionario apparecchio venne anticipato da uno spot, presentato al pubblico solo una volta e della durata di un minuto, che terminava con una voce fuori campo: “On January 24th, Apple Computer will introduce Macintosh. And you’ll see why 1984 won’t be like “1984”.

Se pensiamo alla quotidianità siamo costantemente bombardati da sistemi di comunicazione: telefonini, computer, tablet, lettori musicale, etc… In misura più o meno simile, ne siamo tutti un po’ schiavi. Curioso il caso di una casalinga triestina che, nonostante regolare contratto telefonico, si è trovata senza Internet e senza linea telefonica per cinque mesi (da agosto a dicembre 2009). Il Giudice di Pace ha dato ragione alla donna e condannato la compagnia telefonica ad un risarcimento di 2400 euro, 1600 per il danno patrimoniale ed 800 per quello esistenziale. Il Giudice ha pronunciato la sentenza ritenendo la situazione “particolarmente grave in un’epoca in cui la comunicazione è fondamentale in ogni aspetto della vita quotidiana”. Il danno esistenziale è stato invece giustificato dall’esperienza angosciosa vissuta dalla donna. Sentenza esagerata? Forse, ma guardiamo al di là della richiesta di risarcimento e della causa in sé: come ci saremmo sentiti noi al posto della donna? Non ci saremmo forse sentiti arrabbiati, angosciati, quasi frustrati nel sentirci tagliati fuori dal mondo?

Sempre nel 1984, Craig Brod scrisse un saggio in cui proponeva una riflessione in merito alla tecnologia, che si andava sempre più sviluppando. Egli offrì un’analisi su come l’impatto della tecnologia stesse influenzando negativamente la vita delle persone: i rapporti sociali, le emozioni, la salute. Il saggio era intitolato “Techno Stress: The Human Cost of the Computer Revolution”. Ecco che fa il suo ingresso in scena, per la prima volta, il termine Technostress. Mentre però, secondo Brod, questo si verificava perché il malfunzionamento degli apprecchi innervosiva le persone, ora che questi sono stati migliorati, a distanza di 30 anni, succede lo stesso. Il denominatore comune è sempre quello: le persone. Brod afferma che “Il technostress è una moderna malattia di adattamento causata dall’incapacità di affrontare le nuove tecnologie in modo sano”.

Tecnostress come nuovo rischio professionale nel lavoro moderno

Il 27 marzo si è tenuto presso Zelarino (VE) un convegno intitolato Tecnostress e Internet dipendenza, i nuovi rischi professionali nel lavoro moderno. Il d.lgs. 81/2008, in merito alla sicurezza sul lavoro, ha introdotto l’obbligo da parte delle aziende di monitorare il rischio di stress lavoro-correlato causato dalla continua esposizione alle nuove tecnologie e di attuare programmi di prevenzione per tutelare i lavoratori.

Non per niente il DSM V ha inserito tra le nuove malattie psichiatriche la IAD (Internet Addiction Disorder), altrimenti detta Internet Dipendenza, che In Italia è curata presso il Dipartimento di Psichiatria del Policlinico Gemelli di Roma e che viene paragonata al gioco d’azzardo patologico. Va comunque sottolineato che la diagnosi resta a livello sperimentale e quindi necessita di ulteriori studi ed approfondimenti. Kimberly Young ha fondato negli Stati Uniti il Center for Online Addiction, riconoscendo 5 diversi tipi di dipendenza online e, per valutarne il rischio psicologico, ha sviluppato uno strumento denominato IAT (Internet Addiction Test), un test formato da 20 domande. In Italia viene invece utilizzata la scala UADI (Uso, Abuso e Dipendenza da Internet), composta da 80 domande riguardo l’uso di Internet.

Soluzioni al tecnostress

Sicuramente la tecnologia ha permesso una rivoluzione ed ha fornito un notevole contributo, ma pensiamo ai costi che ciò comporta sui posti di lavoro: in termini di conseguenze fisiche si riscontrano la Sindrome del tunnel carpale, patologie come mal di testa, ansia, ipertensione, calo della concentrazione, insonnia, disturbi cardiocircolatori e gastrointestinali, stanchezza cronica, attacchi di panico, depressione, vertigini, alterazioni comportamentali. Anche la nostra sensibilità viene messa a dura prova: il continuo modificarsi del campo tecnologico porta le persone a sentirsi spesso inadeguate, e questo sovraccarico informatico provoca un forte disagio. Non si fa in tempo ad imparare un nuovo concetto, ad imparare ad usare nuovi strumenti, che subito vengono apportate delle modifiche, talvolta anche senza preavviso, così gli operatori si trovano a dover gestire nuove situazioni, magari improvvisando. Bisogna inoltre considerare che l’automazione ha portato un certo senso di insicurezza sul posto di lavoro delle persone, che si percepiscono come inutili nel proprio campo; ne consegue una forte demotivazione del personale, il quale si sente pertanto svalutato.

Che fare allora? Innanzitutto, anche a livello individuale, bisogna parlare di responsabilità: gli operatori devono adattarsi alle nuove tecnologie senza pretendere di sapere tutto o agitandosi alla prima difficoltà. Una soluzione efficace potrebbe essere quella di lavorare in squadra, perché permette una suddivisione notevole del carico, ma è anche quella più scomoda, poiché per le persone risulta più difficile relazionarsi in un team, preferiscono l’individualità. In questa operazione devono essere supportati dai gradi più alti, che possono offrire un valido aiuto sostenendo il personale, magari informandolo preventivamente circa le modifiche che avverranno, tenendo qualche corso di supporto e dimostrando i vantaggi del lavoro di squadra. È altresì utile garantire un supporto tecnico per quanto riguarda l’installazione e manutenzione degli apparecchi forniti.

Perché é così importante agire sul tecnostress negli ambienti lavorativi? La concentrazione si riduce molto a causa delle continue interruzioni dovute a telefonate, email e /o persone; le nostre prestazioni subiscono così un notevole calo perché non siamo “programmati” per svolgere più compiti contemporaneamente. Questa è quella che viene definita illusione del multitasking: crediamo di riuscire a svolgere più compiti contemporaneamente, mentre invece il nostro cervello non riesce ad elaborare tutte le informazioni insieme, quindi alla prima distrazione ci si distrae ed interrompe. Inoltre le conseguenze fisiche citate prima causano uno stato di salute non proprio ottimale ed il rischio a cui vanno incontro le aziende è dato dall’assenteismo. Il tecnostress è stato infatti riconosciuto come una malattia professionale (Procura di Torino, 2007). Basti pensare all’azione di parlare al telefono mentre si è alla guida: questo riduce i nostri riflessi, e basta la minima distrazione per causare un incidente. Uno studio condotto su 56000 guidatori aveva come obiettivo l’osservare come questi si avvicinavano ad un incrocio con l’obbligo di stop: i risultati hanno mostrato che chi utilizzava il cellulare alla guida aveva il doppio delle probabilità di non riuscire a fermarsi correttamente.

Insomma, la tecnologia è presente nella quotidianità, che ci piaccia o meno. Come si forma il personale all’interno dell’ambiente lavorativo, così bisogna formare le persone ad un corretto utilizzo dei sistemi tecnologici. Aziende e collaboratori devono imparare a supportarsi a vicenda, perché se è vero che le aziende hanno il dovere di aiutare il personale, è altrettanto vero che esse sono formate da singole persone, che devono imparare a convivere con i nuovi strumenti e con i colleghi.

Il dilemma del prigioniero

a cura di Bruno Durante

Win-WinCi è capitato recentemente di intervenire in un contesto dove era necessario “sbloccare” alcune situazioni relazionali non propriamente basate sulla collaborazione. Per farlo, tra le altre cose, abbiamo rispolverato un’esercitazione evergreen: il dilemma del prigioniero. Molti di voi conosceranno il famoso esercizio; si tratta di uno degli esempi classici della teoria dei giochi utilizzato al fine di mostrare cosa succede quando i giocatori hanno a loro disposizione scelte contrastanti tra loro.

La situazione può essere così descritta: due malviventi sono fermati dalla polizia mentre cercano di vendere un oggetto rubato. I poliziotti sanno che i due hanno commesso la rapina, ma non avendo prove per incriminarli, decidono di indurli a confessare. La coppia viene dunque divisa, e a ciascun criminale viene detto: “Sappiamo che siete colpevoli, anche se non possiamo dimostrarlo; ma intanto vi possiamo tenere dentro un annetto per ricettazione. Se però uno solo di voi confessa, lo libereremo e metteremo in carcere l’altro per dieci anni. Se invece confessate entrambi, vi farete cinque anni a testa”.

Concluso il discorso, i malviventi vengono mantenuti separati, in modo tale che nessuno dei due sappia la scelta dell’altro.

Come si comporteranno i due?

Questo “gioco” viene usato in molte discipline (sport, economia, biologia…) per spiegare, o almeno per provare a farlo, il perché di alcune situazioni e scelte che vediamo tutti i giorni.

Dal punto di vista delle “relazioni in azienda” ritengo che questo “gioco” sia esemplificativo di una situazione che si propone di continuo. La nostra attività ci porta a lavorare sulle dinamiche per creare team performanti, per superare tensioni e inefficienze, per creare lean relationships ecc.

Tutte cose importantissime che si scontrano con la difficoltà del singolo, più o meno consapevole, di rinunciare a qualcosa (magari di immediato) a favore del team, in modo da conseguire tutti dei vantaggi. Razionalmente tutti sono concordi nel dire che è corretto sostenere, collaborare, mediare… ma poi, nei comportamenti quotidiani, questo non risulta essere così automatico.

E quindi, giocando “il dilemma” emerge come la componente razionale sia fortemente influenzata dal vissuto emotivo delle persone.

Il fenomeno, a mio avviso, si è accentuato negli ultimi tempi con la situazione difficile che stiamo vivendo. La cosa è probabilmente spiegabile per il fatto che il nostro istinto e la nostra emotività tendono a prendere il sopravvento a discapito della razionalità nei momenti di tensione (R. L. Montalcini docet).

Come fare allora? Su quali leve agire per superare l’impasse? Come fare in modo che l’emotività sia a supporto e non in contrasto con la razionalità…?

Forse creare delle condizioni dove la fiducia in sé e negli altri siano manifestate nei comportamenti, e non solo a parole, è la chiave.

Serve allora alimentare dei contesti dove ci sia la possibilità di essere più se stessi, dove il singolo possa esaltare le proprie capacità e dove i feedback positivi e negativi siano visti come sostegno alla crescita reciproca.

La ricetta magica non ce l’abbiamo, qualche buona idea si, e qualche altra idea magari ci può venire in mente giocando il “dilemma del prigioniero” con le persone delle nostre organizzazioni…

“Letter to a refusing Pilot”: dalla Biennale una riflessione sui nostri limiti etici e morali

a cura di Andrea Di Lenna

biennaleMi trovo spesso in aula a parlare del famoso esperimento condotto nel 1961 dallo psicologo sociale statunitense Stanley Milgram, che aveva verificato come, sotto l’influenza di un’autorità (nel caso specifico un presunto scienziato), la maggioranza degli esseri umani esegua delle azioni che confliggono con i valori etici e morali dei soggetti stessi.

L’esperimento aveva infatti dimostrato come gli individui, sotto l’influenza di un potere esterno, non si considerino più liberi di intraprendere condotte autonome, ma agiscano come strumenti che eseguono ordini senza più sentirsi moralmente responsabili delle loro azioni.

Dopo aver quindi affrontato l’argomento nel corso di una delle giornate formative con un gruppo di manager, ho avuto la piacevole sorpresa di ricevere da un partecipante nel successivo incontro un interessante documento che descriveva un’opera davvero particolare esposta alla Biennale di Venezia.

Si trattava di “Letter to a refusing Pilot”, di Akram Zaatari, artista libanese che descrive un episodio leggendario della guerra con Israele del 1982 in cui si narrava di un fantomatico pilota israeliano, architetto nella sua vita privata e civile, riconoscendo durante un raid aereo la sagoma inequivocabile di una scuola come target da colpire, si sarebbe rifiutato di sganciare le bombe, scaricandole nel mare.

L’episodio diventa così una storia che accompagna l’infanzia e l’adolescenza dell’artista, cresciuto proprio in quella scuola e diretta dal padre.

Alcuni anni dopo il colpo di scena: l’israeliano Avihai Becker pubblica un libro, “Why we refuse”, che raccoglie le testimonianze del dissenso pacifista in Israele, fra cui proprio quella di un pilota, Hagai Tamir, che effettivamente si rifiutò di bombardare l’edificio scolastico, distrutto però in un successivo raid.

Il suo racconto dell’attacco rifiutato dà quindi veridicità a quello che era stato fino ad allora un semplice racconto fantastico e utopistico.

“C’è sempre speranza”, è stato il commento del partecipante: “ognuno di noi ha fino all’ultimo il potere di scegliere, definendo quelli che sono i limiti da non oltrepassare dal punto di vista etico e morale”.

Per maggiori informazioni sull’opera cliccare qui

Come le parole costruiscono la realtà: intervista a Gianrico Carofiglio

a cura di Sara Caroppo

parole-chiaveMarco Tulio Cicerone diceva: “Niente è così incredibile, che l’oratoria non possa rendere accettabile”.
Ecco spiegato in una frase il grande potere delle parole e della capacità di usarle nella maniera giusta.

Per chi lavora con le persone la comunicazione efficace è un pilastro importante se non primario per far bene e ottenere risultati; ma se è vero che le parole creano la realtà, è altrettanto vero che è importante capire come si possano utilizzare, e come vengano utilizzate dagli altri, al fine di generare relazioni produttive ed equilibrate.
Tra i professionisti che fanno del loro punto di forza la conoscenza della “forma giusta” delle parole, e da cui si può prendere spunto sempre nell’ottica di attingere da altri mondi per migliorarsi, ci sono certamente quelli del foro.

A questo proposito, libri di comunicazione e di management a parte, interessanti sono i libri di Gianrico Carofiglio, magistrato e scrittore italiano, tra cui ricordiamo “La manomissione delle parole” o “L’arte del dubbio”. I suoi saggi raccontano, attraverso l’esperienza professionale dell’autore, cosa e quanto si possa fare grazie alla conoscenza della “grammatica delle parole”.
Nonostante il contenuto possa sembrare pertinente solo a chi si interessa di diritto, un’attenta analisi dei libri del magistrato dimostra come il meccanismo che si nasconde dietro ai suoi racconti sia utile per tutti coloro che quotidianamente hanno a che fare con le persone.

Abbiamo avuto la fortuna di incontrare l’autore in occasione della presentazione del suo ultimo libro e di scambiare qualche battuta sull’argomento, focalizzandoci in particolare sulla sottile, ma significativa differenza, esistente tra i meccanismi della persuasione e della manipolazione, di cui più volte si parla nei corsi di comunicazione.

Dott. Carofiglio, qual è secondo lei la differenza tra l’essere persuasivi e manipolativi?
La differenza è nella dimensione etica dell’azione. Sono tutte e due manipolazioni , tutte e due intervengono sull’interlocutore, ma mentre la manipolazione tratta l’interlocutore come un oggetto , l’essere persuasivo lo tratta come una persona.

Come si può avere consapevolezza di questo e difendersi in caso di manipolazione?
Bisogna imparare a riconoscerli, bisogna imparare a riconoscere tutti quei congegni che in maniera più o meno consapevole vengono messi in azione da chi desidera, per varie ragioni, manipolarci.
Ci sono ragioni che hanno a che fare con finalità pratiche , venderci qualche cosa, ottenere qualcosa da noi, altre che hanno a che fare con esigenze più profonde e pericolose, e cioè quelle di aggressione all’altra persona.
Bisogna imparare la grammatica della manipolazione, che ovviamente è una cosa non facile.

Un ultima domanda: qual è il punto in comune tra il suo mestiere di scrittore e quello di magistrato?
La necessaria consapevolezza che bisogna usare le parole esatte per dire le cose.

Forse un’ulteriore domanda bisogna farla, ma a noi stessi: quanto siamo consapevoli delle parole che usiamo e del modo in cui lo facciamo?

XPi-Center: L’evoluzione dell’assessment center secondo Performando

a cura di Andrea Petromilli e Andrea Di Lenna

assL’assessment center è un consolidato modello per la valutazione tanto del potenziale quanto delle prestazioni del capitale umano nelle organizzazioni. Performando ha messo a punto una modalità particolarmente efficace di tale strumento che integra i vantaggi della metodologia multimetodo e multivalutatore, tipica dell’assessment center convenzionale, con le peculiarità della formazione esperienziale.

Il nostro approccio è particolarmente indicato nelle situazioni in cui l’Organizzazione vuol avere un quadro il più dettagliato possibile del potenziale dei propri collaboratori nella logica dello sviluppo e del miglioramento continuo.

Il setting si sposta pertanto dal classico tavolo a “ferro di cavallo” agli ampi spazi, meglio se all’aperto, che diventano lo scenario dentro il quale le persone si sperimentano nella risoluzione di problemi che mettono in risalto competenze quali: la leadership, la comunicazione, il teamwork, l’organizzazione, la gestione delle emozioni, dello stress e del cambiamento. Tale modalità acquista la sua massima efficacia se affiancato da strumenti più tradizionali (test e colloqui individuali in particolar modo) così da avere indici e punti di vista differenti e fornire un quadro il più completo possibile di ogni persona protagonista dell’assessment.

Nel corso del processo di assessment esperienziale, il ruolo dei consulenti è quello di osservare i partecipanti e lasciare a loro stessi il commento di ogni prova. Tale modalità consente così di osservare la capacità di autovalutazione ed analisi della persona.

Un altro aspetto molto caratteristico di tale approccio “esperienziale” è quello di far emergere la capacità di una persona di “imparare” dai propri errori e sviluppare le proprie potenzialità.

L’assessment esperienziale elaborato, ed ormai standardizzato, da Performando dura infatti almeno due giornate e si caratterizza per una crescente difficoltà degli esercizi proposti. Proprio questa gradualità consente di vedere come la persona affronta sfide via via più difficili e fa tesoro dell’esperienza precedente. Apprendere dall’esperienza e riconfigurare le proprie capacità in situazioni nuove e non sempre ben definite è infatti una competenza particolarmente utile nell’attuale contesto lavorativo.

A fronte delle due giornate sono poi previsti colloqui individuali con i partecipanti per fornire loro un feedback specifico ed articolato su punti di forza, aree di miglioramento e possibili modalità per migliorare le proprie performance.

Il modello messo a punto da Performando consente pertanto di aggiungere efficacia al processo di assessment convenzionale coinvolgendo maggiormente i partecipanti che hanno la possibilità di ricevere feedback anche da parte dei propri colleghi relativamente ai comportamenti che sono soliti applicare nella propria realtà lavorativa e che, coerentemente con la metodologia esperienziale, emergono chiaramente anche durante le prove metaforiche dell’assessment. Le persone si sentono così maggiormente consapevoli e protagonisti del proprio processo di sviluppo che, per essere tale ed efficace, non può che partire da un’attenta valutazione/analisi delle proprie competenze.

Un’effetto “collaterale” di questo approccio è quello di ridurre, sin dalle prime fasi, la pressione e la “paura” del giudizio che spesso i partecipanti associano a questo tipo di attività. Le persone infatti non si sentono solo osservati / “giudicati” ma sono spinte all’azione così come accade durate le sessioni formative basate su metodologie esperienziali. Allo stesso tempo sperimentano vissuti e competenze che caratterizzano il lavoro di squadra e le relazioni più o meno efficaci tra colleghi e collaboratori. Capita spesso, al termine del processo di assessment, che i partecipanti ci ringrazino per aver vissuto una significativa occasione per il processo individuale di sviluppo e crescita.

Allargando il punto di vista, da quello individuale a quello organizzativo, è interessante evidenziare come l’aggregazione ponderata dei dati dei partecipanti a tale processo di valutazione fornisca indicazioni particolarmente interessanti sui modelli di competenza, rilevati sul campo, che caratterizzano l’Organizzazione. Tali informazioni si rivelano particolarmente utili per sviluppare o aggiornare i propri modelli di valutazione ed impostare efficaci piani formativi.

I vantaggi per la singola persona quanto per l’Organizzazione, rendono la nostra proposta di assessment center particolarmente vantaggiosa e coerente con il nostro modello di lavoro: incidere sulla singola persona per migliorare i risultati dell’Organizzazione.

Quando cambia l’aria: il nuovo profilo del leader

a cura di Adriano Capelli

leaderNel corso degli ultimi anni, negli Stati Uniti si sono messe in evidenza delle figure manageriali di alto profilo caratterizzate da personalità complesse, ma fragili, che di fronte alla forte pressione della crisi non hanno saputo far mantenere alle proprie aziende la giusta rotta. E’ così che i più importanti gruppi multinazionali americani hanno studiato ed utilizzato la suddetta crisi per modificare le strategie di selezione e scelta dei nuovi manager.

Utilizzando studi recenti svolti in particolar modo dalla Yale University, è possibile affermare che le valutazioni attinenti alla sfera della personalità e del comportamento oggi richiesto si basino moltissimo sulla storia personale del potenziale manager.

La storia personale richiede un colloquio di selezione molto più accurato di quanto sino ad oggi venga fatto all’interno della maggior parte delle nostre realtà aziendali; le azioni e le esperienze del soggetto nel rapporto con la sua socialità vissuta determinano quindi una prima seria valutazione.

In effetti si valuta oggi con grande positività una persona equilibrata, dotata di autostima e di leadership che potremmo definire “tout court” adattiva ed elaborativa. In altri termini, si ricercano persone che diano importanza anche alla propria socialità, uscendo dal classico schema “more work-more money” che ha portato al proliferare di cliniche per la cura di patologie come il “work alcohlism”.

Il “new deal” dei manager americano è quindi attualmente orientato a scegliere persone con vari interessi e passioni, con buona organizzazione e che non ripongano solo nel business la loro totale energia, in modo che di fronte al palesarsi di nuove crisi sappiano fronteggiare con un certo “distacco” le pressioni del caso, mantenendo creatività, lucidità e forza d’animo. Appare evidente che senza una certa educazione di base, che come sempre proviene dalla famiglia di origine, ed un “amore” per le persone della propria squadra, qualunque occasione per parlare di leadership diventa improponibile.

Pare evidente che anche in Paesi ad alta “corrosione lavorativa” ed alto stress per i manager l’aria stia cambiando. Ma crediamo in meglio.

Potremmo pensare che un leader di questo tipo sia più vicino ad un esperto di economia, di mercato ma anche di filosofia ed infine, paradossalmente, anche di free time.

Appare evidente come gli Stati Uniti utilizzino ogni crisi per ripartire con idee e filosofie nuove e coraggiose. Quel coraggio che spesso non induce ad un reale e proattivo cambiamento se non viene posseduto da chi ha il privilegio e la responsabilità di gestire “la stanza dei bottoni”.

Serata culturale con Francesco Apuzzo su “I comportamenti di vendita e di acquisto”

a cura di Francesco Apuzzo

PROGCOLLABOgnuno di noi rappresenta qualche cosa di unico. Non c’è nessuno sulla terra che sia uguale a qualcun altro, né mai ci sarà (tentativi di clonazione umana esclusi!). Ogni individuo differisce da un altro sia nelle apparenze esterne che nelle sue caratteristiche più nascoste, nel modo di capire il mondo ed in quello di capire se stesso, nelle cose che fa ed in quelle a cui dà importanza. Fino al secolo scorso solo filosofi e storici studiavano approfonditamente il comportamento dei diversi popoli e delle persone; negli ultimi cento anni la materia è divenuta di interesse anche per scienziati del sociale, antropologi, economisti, studiosi di scienze politiche, sociologi, operatori del marketing e della comunicazione.

Domanda, “ma non ci eravamo iscritti ad un corso sulla vendita”? Risposta “Sui comportamenti di vendita, anzi, per la precisione sui comportamenti di vendita e di acquisto”. Già, gli acquirenti, a volte forse ci si concentra più su noi stessi e sul prodotto che su di loro. Una rapida analisi, effettuata con il contributo scritto dei partecipanti, ha dimostrato che in effetti le difficoltà che si affrontano nella trattativa sono reciproche.

Con queste premesse è partito il corso a cui hanno partecipato titolari di impresa, responsabili commerciali, Professionisti iscritti ad albi, responsabili acquisti e startupper, prevalentemente del settore ICT, ma non solo.

Le tecniche di vendita, ossia le metodologie definite anche push (ti spingo all’acquisto) non sono sempre le più indicate per soddisfare le esigenze dei consumatori attuali. La scelta enorme, e poco differenziata, di prodotti e servizi ha portato il cliente finale ad una valutazione basata su indicatori sparsi, non chiari e da alcuni anni non più legati al semplice rapporto qualità/prezzo. I comportamenti di vendita si basano invece su metodologie pull (attrarre, ti accompagno verso l’acquisto) e sono utili quando le strategie commerciali sono basate sul lungo periodo e non sul breve.

Il programma specifico della serata era diviso in 6 punti: il passaggio dalle tecniche ai comportamenti di vendita, le motivazioni per vendere e per acquistare, la differenza tra bisogno e desiderio, l’instaurazione di una relazione di lungo periodo, il post vendita e la gestione positiva del reclamo, il patrimonio di reputazione. Rispettando la tipologia dell’incontro, definito appunto serata culturale, per ognuno di essi è stata fornita una presentazione sia a livello teorico che pratico con esempi e filmati, naturalmente con l’intento di essere un momento di riflessione su cui poi iniziare dei ragionamenti più strutturati, a livello individuale, che richiedono più tempo. Lo scopo era quindi quello di fornire indicazioni strategiche ed operative ai partecipanti in merito alla gestione del processo di vendita quale momento in cui si incontrano motivazioni e desideri sia dell’acquirente che del venditore.

E’ stata data evidenza all’unicità della relazione, caratterizzata dalla presenza di persone, tempistiche e caratteristiche sempre differenti ed è stato sottolineato come l’importanza del riconoscimento delle proprie potenzialità e competenze, e soprattutto della motivazione, sia un elemento imprescindibile per comprendere meglio le esigenze dei clienti ed interagire con loro avendo come punto di riferimento la soddisfazione reciproca.

Il venditore assume, così facendo, il ruolo di consulente/partner.

Tecnica di vendita equivale a “faccio sempre cosi perché ho visto che in questo modo spesso va bene”, mentre il comportamento equivale a “cambio la mia visione del valore della percezione del prodotto in base ai bisogni o ai desideri del cliente”. Ci vogliono tempo e competenze per essere un venditore che si basa su questi valori, e di sicuro nel lungo periodo i vantaggi si vedono.

Non c’è fidelizzazione senza la totale soddisfazione del cliente, può essere più semplice vendere un prodotto senza seguire queste modalità, ma successivamente si potrebbe perdere per sempre l’acquirente se questi scoprisse di essere insoddisfatto. E con insoddisfazione non ci si riferisce solo alle caratteristiche tecniche (il prodotto non fa quello che pensavo facesse), ma a qualcosa di più intangibile, come appunto la relazione che è stata instaurata. Le parole chiave quindi erano relazione, ascolto, empatia, consulenza, partner ed etica, che hanno, per questa serata, sostituito quelle di “piede nella porta”, persuasione, riprova sociale, autorità, scarsità e disco di vendita, più legate alle tecniche.

E in questo modo anche la variabile prezzo assume una valenza differente da quella che di solito si immagina, ossia non è la valutazione più importante e decisiva ma una delle tante variabili su cui si può argomentare la nostra vendita. In sala erano presenti aziende che vendono i loro prodotti e servizi ad un prezzo più elevato rispetto alla media del settore, bene! Evidentemente c’è qualcosa che vale di più, nella soddisfazione non tanto del bisogno ma piuttosto del desiderio che vanno a soddisfare. Per dimostrarlo è stato effettuato anche un esercizio di comunicazione, al termine del quale alcuni partecipanti si sono “comprati” (ad una cifra simbolica di un euro, poi regolarmente restituito) la soddisfazione di verificare se fossero stati bravi o meno.

Infine si è parlato del Patrimonio di Reputazione, ossia di “cosa si dice di me in giro” e di come poter governare tutte queste informazioni, proponendo due modalità: la prima definita 1.0, analogica, che potrebbe ad esempio consistere nella redazione e pubblicazione annuale di un bilancio sociale seguendo le indicazioni della Responsabilità Sociale di Impresa (o CSR, Corporate and Social Responsibility). In questo modo si può essere i primi a raccontare di sé prima che qualcuno lo faccia al posto nostro, aprendo le porte della nostra azienda con dati organizzativi, finanziari e di gestione del rapporto con l’ambiente circostante (fornitori, clienti, territorio e altri portatori di interesse) non lasciando nulla all’immaginazione. La seconda modalità è stata definita 2.0 (forse anche 3.0), digitale, ossia di generare relazione positiva tramite l’utilizzo degli strumenti sociali collegati alla rete.

Certo, per fare sia il primo che il secondo lavoro è necessario un investimento di tempo e di collaboratori, che pur non essendo in quel momento “fuori a vendere” stanno in realtà vendendo relazione, rispetto, reciprocità e l’immagine dell’azienda: tutti questi sforzi saranno ricompensati successivamente perché l’acquirente si sentirà sicuro, rispettato, comprerà con grande soddisfazione e soprattutto tenderà a parlarne positivamente diventando in tal modo un “moltiplicatore delle vendite”.

Per raggiungere questi obiettivi è fondamentale agire in modo strutturato ed iniziare eventualmente un percorso di formazione per chi si occupa di questa area: è stato proposto un esempio reale di come anche solamente la modalità di risposta al telefono, per la gestione di un reclamo, possa generare fidelizzazione! Infine, avere la pazienza di veder arrivare i risultati tangibili e traducibili in aumento di fatturato e che, come proponiamo nel nostro motto aziendale, contribuiscano a creare onde positive anche tra i clienti!

L’articolo di Francesco Apuzzo è stato pubblicato sulla newsletter di Informatica Trentina.

Performando e PepsiCo ancora partner

pepsiPepsiCo rinnova la collaborazione con Performando per l’anno 2013 – 2014 attraverso la distribuzione dei suoi prodotti, in particolare quelli con il marchio Gatorade, durante le attività di Outdoor Training.
PepsiCo è presente sul mercato italiano dal 1960 grazie ad accordi di franchising e dal 1995 con una vera e propria filiale che si avvale oggi di circa 200 persone, con 1 sito produttivo di proprietà.
PepsiCo Italia opera principalmente nel settore delle bevande analcoliche, nelle bevande gassate fin dall’inizio della sua attività, in particolare con il brand Pepsi, a cui si aggiungono nel 2002 le bevande isotoniche (Sport Drinks) con Gatorade.
Nel 2006 entra nel portafoglio il succo di frutta n° 1 al mondo Tropicana; nel 2007 è stata infine siglata un’importante joint venture con unilever che riguarda la produzione, la commercializzazione e la promozione del tè freddo Lipton. Da gennaio 2011 distribuisce anche i succhi Looza in esclusiva nel mercato dell’HoReCa.

Le ricchezze dell’aula

a cura di Andrea Di Lenna

ostricaCapita spesso di incontrare persone che offrono spunti e riflessioni utili a chi, come il sottoscritto, svolge la professione di formatore.
E’ quanto per l’ennesima volta mi è accaduto la settimana scorsa, quando ho avuto il piacere di incontrare dei partecipanti che, nel presentare durante un corso di formazione un lavoro di gruppo che aveva l’obiettivo di descrivere dei personaggi importanti dell’Università di Padova, ha scelto Guido Petter, illustre professore di Psicologia presso l’Ateneo patavino venuto purtroppo a mancare nel 2011.
Nel raccontare la vita e l’opera del conosciutissimo professore, che amava girare per Padova con la sua bicicletta e fermarsi a parlare con i suoi studenti, il gruppo di lavoro ha deciso di concludere il lavoro utilizzando una citazione tratta dal suo più recente libro “Per una verde vecchiaia” (Giunti, 2009), che riporto di seguito:

“Mi sono sempre più convinto
che sia giusto salutare l’arrivo di ogni nuovo giorno come un dono prezioso,
e che sia altrettanto giusto e importante
(oltre che possibile)
immergersi quotidianamente in attività piacevoli e significative,
utili a sé e agli altri,
e lavorare ad esse con impegno,
come se non si dovesse morire mai.
Proprio così, lo ripeto:
come se non si dovesse mai morire”.

E’ stata una presentazione veramente toccante, culminata con questa bellissima citazione che ho voluto riportare perché rappresenta ciò che tutti i giorni, in modo più o meno efficace, proviamo a fare nel nostro lavoro.
L’auspicio è che possa essere di stimolo e di aiuto per tutti coloro che attraversano le mille difficoltà dei nostri giorni e che, forse anche attraverso il pensiero di qualche saggio personaggio, possano ritrovare forza e speranza per combattere i duri momenti che tutti noi stiamo attraversando.

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