Articoli e news di Performando

Ottimismo vs. Pessimismo; chi vince?!

 a cura di Sebastiano Cutrupi

ottim“La Repubblica” del 20 dicembre 2012 pubblicava un interessante articolo di Federico Rampini il quale, prendendo spunto dal libro Prozac Leadership del prof. Collison, attua una mirata disamina della storica contrapposizione tra pensiero “ottimista” e “pessimista” (positive vs. negative thinking).

Seguendo il ragionamento di Rampini emerge che la cultura del positive thinking è nata in Usa diffondendosi poi nel mondo occidentale e determinando quella che Collison definisce una sorta di dittatura del conformismo sfociata nel crac economico del 2008. A tal proposito, cita lo sgomento dei banchieri di fronte alle proteste del movimento Occupy Wall Street come esempio della perdita di legame con la realtà che una visione forzatamente ottimistica potrebbe causare – «Perché ce l’hanno con noi, cosa abbiamo fatto?!». Collison continua sostenendo che la criticità sia una cultura la quale impone di nascondere le proprie paure ed incertezze, mostrandosi vogliosi di riuscire e ciechi di fronte ai rischi. In tal senso, Laurence Peter ha coniato un’ironica teorizzazione secondo la quale all’interno di ogni organizzazione ciascuno viene promosso fin quando raggiunge il livello di responsabilità per il quale è del tutto incompetente, e ciò comporterebbe una sostanziale impossibilità del “successo finale”, sulla base di un enorme diffusione di manager inadeguati. Probabilmente, però, ciò contro cui si scagliano gli autori non è l’ottimismo reale quanto la sua degenerazione, il cosiddetto ottimismo ottuso che persegue scopi attraverso vie e percorsi totalmente disancorati dal mondo reale ed oggettivo. Lo stesso Rampini, chiudendo l’articolo, precisa che l’ottimismo positivo (ma non illusorio) è il motore del progresso e della crescita umana; riallacciandoci a tale puntualizzazione possiamo far luce, ad esempio, sulle migrazioni: la nostra specie non si sarebbe diffusa nel mondo se non ci fosse stato un minimo di ottimismo a guidare i nostri avi nelle prime esplorazioni di terre totalmente sconosciute, così come ora non avremmo gli agi e le comodità di cui godiamo se una sfilza di (visionari ma ottimisti) inventori e creativi non si fossero dati da fare.

Ecco che l’equilibrio sembra essere la chiave di lettura più efficace: troppo pessimismo bloccherebbe l’azione, ponendoci in una condizione di immobilismo spaventato ed inquieto; allo stesso tempo, però, una visione ottimisticamente idealistica della vita condurrebbe senza dubbio al precipizio dell’irreale. Qui si inserisce il lavoro di Martin Seligman il quale, nei suoi lavori, evidenzia l’importanza del “credere” e dell’approcciarsi alla vita senza farsi “assalire” dalla negatività, affinché la vita non solo appaia ma sia effettivamente vissuta in modo positivo, non illusorio né, soprattutto, offensivo nei riguardi del nostro diritto di vivere nel miglior modo possibile. Esempio opposto risulta essere quello che scaturisce dalle ricerche di Beck (1967; 1961) i cui studi hanno messo in luce come, in pazienti affetti da sindromi depressive o da stati emotivi tendenzialmente negativi, si configurasse quella che Beck chiamò la “Triade cognitiva”: visione negativa di sé (sentirsi inadeguato o difettoso) e del mondo (interpretare negativamente le interazioni con l’ambiente) che si legano ad un’ulteriore concettualizzazione negativa del futuro (pessimismo). Un giusto equilibrio fra i due thinking (positive e negative) appare, invece, come il modo più sensato di vedere ed affrontare le cose: una concezione del rischio, del pericolo e dell’imprevedibilità del reale (negative) come sfondo tenue ma presente in un moto costante e perpetuo verso il nuovo, il diverso e possibilmente migliore (positive), che non sono sinonimi ma spesso si accompagnano vicendevolmente.

Lavorare in gruppo, le relazioni interpersonali/gestire il gruppo di lavoro

a cura di Francesco Apuzzo

FApersitoUn corso sul lavoro di gruppo! Anzi, due corsi: nello stesso giorno e nella stessa aula si sono susseguiti due incontri su questo argomento, vuol dire che è di moda! Complimenti, complimenti per aver partecipato e aver dedicato del tempo per riflettere sulla gestione dei rapporti all’interno del vostro luogo di lavoro, e questo vale sia per chi si è presentato in qualità di responsabile, chi di collaboratore, chi di entrambe le posizioni.

“Sì, ma quanto si guadagna ad investire tempo e denaro sulle relazioni interpersonali?” “Come le rivendo una volta migliorate?” “E forse, non è il caso di lasciare tutto cosi com’è, che comunque funziona da anni?” “Sì, ma mi aspettavo un corso sul gruppo, ossia come si deve fare per crearlo, con una guida passo/passo”. Queste, ed altre, sono le domande a cui si è tentato di dare risposta durante l’incontro, valorizzando lo spirito della serata appositamente denominata “culturale”, ossia di diffusione di conoscenza volta allo sviluppo di capacità e al miglioramento delle competenze. Fare un corso sul gruppo senza il gruppo è molto sfidante, nel senso che mai come in questa tematica è fondamentale partire dall’individuo, dalla persona, dalle sue motivazioni, dai suoi obiettivi e dalle sue emozioni. La serata ha quindi voluto dare spunti di riflessione e fornire alcuni esempi pratici/simulazioni di team building, cercando di illustrare quali possano essere le azioni per passare dal concetto di gruppo a quello di squadra, partendo dal presupposto che ogni gruppo di lavoro ha le proprie particolarità, simboli, riti, valori e che quindi sia opportuno riflettere volta per volta sulle azioni da intraprendere.

Quindi, perché farlo (il lavoro sul gruppo)? Per vari motivi: primo, forse nelle altre aziende lo stanno già facendo e questo porterà dei vantaggi competitivi, generando miglior clima, migliori rapporti, miglior comunicazione, maggiore soddisfazione del cliente, maggior fidelizzazione, maggior passaparola, recensioni positive on line e in definitiva anche maggiori vendite e guadagno!; secondo, la normativa sullo stress-lavoro correlato, che è in continua evoluzione, da una parte potrebbe presto diventare un obbligo, dall’altra è un asset intangibile (ed è comunque meglio farsi trovare preparati alle normative); terzo, la soddisfazione personale di lavorare (o di offrire un posto di lavoro) in un ambiente gradevole, stimolante, che valorizzi le nostre aspettative e nel quale sentiamo di poter contribuire allo sviluppo del benessere aziendale, nostro e dei colleghi. Ancora, molti altri motivi, tra i quali la possibilità di iniziare il percorso verso la creazione della Responsabilità Sociale d’Impresa.

Da dove partire.

Ogni persona differisce da un’altra sia nelle apparenze esterne che nelle sue caratteristiche più nascoste, nel modo di capire il mondo E se stessi, nelle cose che fa ed in quelle a cui dà importanza. CHI ha ragione? Tutti, naturalmente. Oppure nessuno, oppure solo alcuni, ma rispetto a cosa? Quale è il parametro? Di cosa stiamo parlando? La risposta a tutte queste domande, così come presentata durante il seminario – e come dice sempre Andrea di Lenna, titolare di Performando – è questa: “dipende”. Stiamo infatti parlando di sistemi valoriali da condividere in norme di comportamento del gruppo, una delle sfide più complesse, e per questo potenzialmente tra le più redditizie, dell’organizzazione aziendale. Il termine valore deriva dal tardo latino valor=forza, ma due forze contrastanti si annullano, e pertanto risulta necessario identificare quelle che vanno nella stessa direzione, altrimenti si rimane fermi. E come faccio ad identificarle? Potrei sentire le opinioni di tutti e poi scegliere la maggioranza, con un tradizionale metodo democratico, ma non è detto che sia la scelta migliore per la sopravvivenza dell’azienda. Quindi quale è il metodo migliore? Quello che ho definito “gruppocratico”, ossia che tiene conto delle opinioni di tutti e sceglie la soluzione migliore per poter continuare a generare profitto, che potrebbe essere la scelta di pochi o addirittura di uno solo, il cosiddetto leader visionario.

E’ a questo punto che si può iniziare a parlare di cultura d’impresa, di cultura di gruppo, di passaggio al concetto di squadra, di leader e di follower per generare visione e missione aziendali.

A proposito di visione e missione, una volta create vanno allenate, riprese più volte, non devono rimanere nella bacheca aziendale o sulla home page del sito.

Già negli anni ’90 E. H. Schein proponeva questa riflessione (il termine gruppo o squadra in questo caso sono sostituibili):
“L’essenza stessa del gruppo o identità del gruppo – gli schemi comuni di pensiero, le convinzioni, le sensazioni ed i valori risultanti da un’esperienza comune e da un comune apprendimento – è ciò che noi, in ultima analisi, chiamiamo “cultura” di quel determinato gruppo. Senza un gruppo non ci può essere nessuna cultura, e senza un certo livello di cultura non si può parlare effettivamente di gruppo, ma solo di un insieme di persone. Di conseguenza, la nascita di un gruppo e la formazione della cultura possono solo essere considerate due facce della stessa medaglia, ed entrambe sono un prodotto dell’attività di leadership.”

Uhm, siamo nel 2013…valgono ancora queste considerazioni? Più che mai ora, specialmente perché il mondo del lavoro è in continuo mutamento e le persone hanno molta più possibilità di allora di conoscere, informarsi ed informare.
Di nuovo uhm, con tutti i pensieri che ho per la fase economica in atto, la pressione fiscale, l’incertezza, la ricerca e sviluppo, l’innovazione, l’innovazione! (lo ripeto due volte perché se ne parla ogni giorno) devo anche dedicarmi a questo lavoro? Non devo, posso. Ma se lo inizio devo pensarlo come un percorso, un allenamento con un obiettivo di lungo periodo. Stiamo parlando di persone, di emozioni, di sensibilità, di autostima, autorealizzazione, etica, motivazioni, per alcuni addirittura fede. Quindi ogni intervento formativo e consulenziale deve essere valutato, ponderato, se possibile gestito da specialisti, meglio ancora se esterni, presenti nella fase iniziale e successivamente come supporto con attività di coaching, mentoring e tutoring. Tradotto: a frasi tipo “dai facciamo un corso sul team building di una giornata, all’aperto, magari di sabato che non si lavora, così ci divertiamo e da lunedì tutto andrà meglio” la considerazione da fare è sempre la stessa, “dipende” , da caso a caso. Potrebbe anche andare bene, se il clima è già positivo, come potrebbe solamente evidenziare o far emergere situazioni latenti e sopite da tempo che, se non gestite in maniera opportuna, potrebbero addirittura peggiorare. Alle domande “quanto dura un corso sulla squadra?”, “quanto ci vuole per cambiare in meglio?” la risposta è ancora quella. Per ottenere tutto questo, come ulteriore indicazione, è fondamentale il “commitment” (qualcosa di più dell’impegno) da parte del titolare, capo, proprietario, allenatore, responsabile della squadra che ha percepito la necessità di lavorare su questi aspetti. Non è detto che debba partecipare a tutti gli incontri, di certo deve informarsi, ascoltare e informare, valutare i cambiamenti ed essere il primo a metterli in pratica, sia a livello comportamentale che strutturale. Si può generare un miglior clima operando sulla ergonomia del luogo di lavoro, sull’accoglienza dei bagni, sulla grandezza dei monitor, come lavorando sulla capacità/volontà di essere un leader autorevole.

Certo è che, una volta iniziato un percorso di formazione e consulenza strutturato, i risultati arrivano e generano un volano di dinamiche concrete facilmente tangibili e traducibili in sostanziali miglioramenti, sia di clima che di fatturato e che, come proponiamo nel nostro motto aziendale, contribuiscono a creare onde positive!

Nota: il seminario ” Lavorare in gruppo, le relazioni interpersonali/gestire il gruppo di lavoro ” è stato tenuto lo scorso mercoledì 17 aprile nella “Sala dei 90” presso la sede dell’Associazione Artigiani in Trento, nell’ambito delle iniziative sviluppate dal Tavolo collaborazione territoriale ICT, costituito da Informatica Trentina e dalle Associazioni di categoria.

L’articolo di Francesco Apuzzo si trova all’interno della newsletter di maggio di Informatica trentina; per visualizzare la newsletter cliccare qui

E’ uscito il primo libro in Italia sulle small techniques

cover È appena uscito in libreria il manuale Small techniques, giochi d’aula e attività per l’apprendimento esperienziale, che si configura come la preannunciata versione “2.0” del precedente Formazione esperienziale, istruzioni per l’uso. In entrambi i casi tra i professionisti coinvolti nella stesura dei due libri c’è anche il nostro consulente Andrea Petromilli.
Small techniques, giochi d’aula e attività per l’apprendimento esperienziale oltre ad essere una raccolta di esercitazioni particolarmente pratiche ed efficaci, si presenta come un progetto di studio, ricerca e divulgazione di tematiche inerenti la formazione esperienziale attraverso alcune metodologie che vengono sintetizzate con il termine “Small Techniques”: una serie di attività di durata compresa tra i 10 ed i 60 minuti […] piuttosto strutturate e con regole definite, realizzabili anche indoor e che non richiedono l’utilizzo di attrezzature complesse(Bettinelli, Le small techniques nell’outdoor training, 2008).
come era già successo nel primo volume lo spirito di condivisione ha caratterizzato anche la nascita e la successiva stesura di questo libro.
Ogni professionista ha infatti descritto un minimo di tre tecniche / esercitazioni esperienziali con la condizione che fossero testate, efficaci e di facile comprensione per il lettore. Allo stesso tempo si sono svolti degli incontri, nel corso del 2012, in cui gli autori hanno presentato alcune esercitazioni per raffinarle ulteriormente contribuendo significativamente al miglioramento del manuale stesso.
Il volume è composto da 68 schede, una per ogni esercizio, applicabili a diversi campi d’intervento quali: team working, team building, plubic speaking, leadership, negoziazione, intelligenza emotiva, problem solving ed altri aspetti che possono caratterizzare gli obiettivi di specifici processi formativi in modalità esperienziale.

Oltre alla descrizione dell’attività e del materiale necessario per realizzarla, ogni scheda approfondisce i seguenti punti:

– Cosa è possibile imparare durante l’attività
– Che cosa osservare durante lo svolgimento
– Domande per la fase di riflessione

Infine, tramite un QR-code specifico per ogni esercitazione, è possibile accedere a servizi telematici che permettono di esplorare e visionare i materiali condivisi, tra cui numerosi video e foto inerenti le tecniche stesse.

Per visionare i contenuti del libro, una sua anteprima ed acquistarlo, anche in formato elettronico, cliccare sul seguente link

Sbagliando si impara… a sbagliare

a cura di Giacomo Vidoni

articolo-errore“Nella scienza, come nella vita, vige il metodo dell’apprendimento per prove ed errori, cioè di apprendimento dagli errori. L’ameba ed Einstein procedono allo stesso modo: per tentativi ed errori e la sola differenza rilevabile nella logica che guida le loro azioni è data dal fatto che i loro atteggiamenti nei confronti dell’errore sono profondamente diversi. Einstein, infatti, diversamente dall’ameba cerca consapevolmente di fare di tutto, ogni qualvolta gli capiti una nuova soluzione, per coglierla in fallo e scoprire in essa un errore: egli tratta o si avvicina alle proprie soluzioni criticamente. Assume cioè un atteggiamento consapevolmente critico nei confronti delle proprie idee.L’ameba morirà a causa dei suoi errori, Einstein sopravviverà proprio grazie ai suoi errori”

La domanda sorge spontanea: il nostro atteggiamento nel confrontarci con gli errori è più simile a quello di Einstein o a quello dell’ameba?
Il lettore che si fosse sentito più vicino all’ameba potrà consolarsi venendo a sapere che eminenti studiosi comportamentisti condividono la sua opinione sostenendo anch’essi che il senso comune porta l’uomo a comportarsi più come la spugna che lo scienziato. Il concetto di riflesso condizionato, che sta alla base del comportamentismo, ne è una dimostrazione. Con questo termine si fa riferimento ad un tipo di apprendimento iterativo per induzione studiato agli inizi del 900 con il celebre esperimento del cane che impara ad associare lo stimolo dell’ appetito al suono della campanella.
L’implicazione che se ne trae è che quello che ci interessa non è capire perché qualcosa funziona, fintanto che funziona. Ogni errore che incontriamo nel corso del nostro agire è vissuto come un avvenimento marginale e non rappresentativo; viene quindi rimosso ed ignorato. L’errore quasi mai è apprezzato in quanto potente strumento conoscitivo, il solo a nostra disposizione che ci consenta di avvicinarci alla conoscenza di una realtà quanto più possibile oggettiva.

Questione di metodo

Riprendendo l’esempio di prima: il metodo usato dall’ameba è detto induttivo, ovvero da una serie di eventi giungiamo ad una inferenza sulla realtà generale (per il cane era la relazione campanella-cibo) . Il metodo usato da Einstein è invece scientifico-fasificazionista: data una teoria generale sulla realtà, cerchiamo di ricreare in una situazione controllata (sperimentazione scientifica) un evento che se verificato falsifichi le nostre congetture (approccio fasificazionista). Ecco di seguito le tappe con cui generalmente si sviluppa quest’ultimo modo di confrontarsi con la realtà:

1- osservazione di un fenomeno

2- individuazione di una teoria generale che lo spieghi – confronto con gli studi precedenti

3- previsioni della teoria riguardo al fenomeno osservato – formulata in modo che sia facilmente falsificabile

4- formulazione di un’ ipotesi (previsione) che se verificata falsifichi la teoria – scelgo una tra le possibili ipotesi alternative

5- esperimento: riproduco il fenomeno controllando le variabili prese in ipotesi – interrogo la realtà

6- confronto realtà con la teoria: se l’ipotesi è verificata allora la realtà è diversa dalla teoria

Lo scienziato e l’uomo della strada

Il metodo, certamente ineccepibile, purtroppo è lontano dalla nostra vita quotidiana. Questa infatti si svolge al di fuori di un laboratorio, raramente abbiamo l’ambizione di dimostrare una teoria e soprattutto, quando qualcosa funziona, non andiamo a cercare una circostanza che la possa guastare. Però quest’ ultima contingenza, nonostante il nostro disinteresse scientifico, prima o poi si verifica ugualmente. Ecco che quando l’errore e la falsificazione irrompono nel nostro quotidiano, troviamo un momento che appartiene a noi quanto al ricercatore ma mentre quest’ultimo benedice l’apice del processo conoscitivo, l’uomo comune generalmente ne maledice l’occorrenza.

Questione di prospettive

Per lo scienziato la falsificazione è l’ultima tappa di un processo orientato al confronto tra le sue previsioni riguardo un determinato fenomeno ed il suo effettivo andamento. Per la persona comune la falsificazione può essere – quando l’errore non viene ignorato- la prima tappa di un processo che porterà al confronto tra le sue previsioni e la realtà… Il che significa intraprendere lo stesso percorso dello scienziato a ritroso!

6- L’evento dimostra che la realtà è diversa dalla teoria – Riconosco che le cose non sono andate come avevo previsto

5- Ripercorro l’accaduto – Quali sono le variabili entrate in gioco? cosa ha causato cosa?

4- Risalgo all’ipotesi che si è attuata (l’errore) e ha falsificato la mia teoria – Se avessi previsto quello che è successo, come l’avrei formulato?

3- Rielaboro la teoria iniziale, l’insieme di credenze che mi hanno portato a fare una previsione sbagliata – cosa pensavo prima del momento dell’errore? quali sono le differenze tra la mia previsione precedente e quella elaborata al punto 4?

2- Generalizzo la teoria (l’insieme delle mie credenze) riguardo questo caso specifico e la confronto con altre – A chi posso chiedere? Chi altri ha avuto a che fare con lo stesso fenomeno ?

1- Osservo il fenomeno (l’errore) – ora so che la teoria che ho usato per interpretare l’accaduto fino a poco fa era sbagliata. Da qui se voglio posso ragionare su una nuova teoria e affrontare i 6 punti a ritroso, ovvero andare a cercare quell’errore che prima probabilmente cercavo di evitare.

La possibilità di essere approcciato in un punto come in un altro rende evidente la natura ciclica e continua di questa peculiare metodologia di sviluppo della conoscenza. Ogni errore ci da l’occasione per inserirci in questo circolo virtuoso.
Una volta imboccata questa strada si corre il rischio di portare nella propria quotidianità quella passione per la ricerca e quella tensione al miglioramento continuo che determinano l’evolvere della conoscenza (atto dinamico di acquisizione del sapere) in scienza ( sistema dei saperi).

Il carisma possibile

a cura di Sara Caroppo

Aristotele e PlatoneChi sono le persone carismatiche?

Illuminati della comunicazione?
Geni nell’arte della persuasione?
O, più banalmente, oratori esperti e sicuri delle proprie abilità?
Certo, l’etimologia del nome carisma (dal sostantivo charis, grazia) non aiuta nella risposta, o meglio indirizza l’attenzione in un’unica direzione.
Parlare di grazia in fondo è come parlare di talento, di dote innata, di capacità naturale.

La questione quindi potrebbe terminare qui. E invece due pensieri la riaprono.

Il primo è che rimanere con l’opinione comune che ciò che fa primeggiare una persona sia innato blocca continuamente la strada allo sviluppo personale e professionale, impedendo di fatto il miglioramento individuale e l’innovazione.
E dovremmo chiederci se è proprio questo che vogliamo.
La seconda è che se abbiamo delle credenze che di fatto ci limitano, forse è arrivato il momento di modificarle, soprattutto, in questo caso, alla luce dei risultati emersi da una ricerca svolta l’anno appena passato da John Antonakis, docente all’Università di Losanna e di cui si parla sulla rivista Harvard Business Review di Settembre scorso.

Insieme con il suo staff di ricercatori il professore ha indagato, a tavolino e sul campo, sul concetto di carisma e ha dimostrato come l’allenamento di quelle che sono definite “tattiche per una leadership carismatica (TLC)” è l’ingrediente magico che rende un leader affidabile e influente.

Ma se l’ingrediente magico è la costruzione di un insieme di tattiche, come può stare in piedi l’idea che il carisma sia un puro talento naturale?

Le TLC chiave individuate dalla ricerca sono 12.
Nove sono verbali, tra le quali metafore, similitudini, analogie, racconti, aneddoti, domande retoriche, tricolon, ecc.
Tre non verbali: tono della voce, mimica facciale e gestualità.
A queste si possono aggiungere alcune tattiche che vanno dal ricorso allo humor, all’uso di parole in cui le persone possano rispecchiarsi.

Il tutto è riassumibile, andando all’indietro con i tempi e riprendendo la Retorica di Aristotele, nei concetti di logos (discorso) e pathos (risveglio dell’emozioni), elementi su cui è ben evidente che si può lavorare costantemente con un po’ di sano e consapevole esercizio.
Senza dimenticarsi poi del terzo elemento evidenziato dal filosofo greco nelle sua opera, ovvero l’ ethos, altrimenti definita “credibilità personale e morale”.

Conclusione?

Alla parola carisma è bene non associare l’aggettivo inaccessibile, meglio usare possibile.

Perché le tattiche, per definizione, si possono costruire, una volta evidenziato l’obiettivo.

La strada verso il carisma dunque non è per pochi eletti, ma è in salita e richiede grande impegno, forte spirito di autocritica e coerenza.

Saranno forse queste le vere doti che fanno la differenza tra un leader e l’altro ?

A lezione da Morfeo

a cura di Giacomo Vidoni

narcolessiaÈ domenica sera e lunedì c’è la prima lezione del corso di judo (o di tango argentino) a cui ci siamo finalmente iscritti. Pieni di buoni propositi –e forse un po’ preoccupati di fare qualche brutta figura- decidiamo che guardarci un paio di video a riguardo prima di metterci a dormire sicuramente male non ci può fare.
Anzi. Non lo immaginiamo ma proprio questa scelta porterà un apporto significativo alla nostra prestazione nella pratica del giorno successivo.
È stato infatti dimostrato da uno studio del 2009 dei ricercatori olandesi Van Der Werf e colleghi che un periodo prolungato di sonno successivo all’osservazione di un compito motorio contribuisce a migliorare significativamente la sua successiva esecuzione: il numero di errori cala circa del 40% rispetto ad un gruppo di controllo ed anche la velocità aumenta significativamente. L’effetto è stato riscontrato però soltanto nella condizione in cui il periodo di sonno fosse immediatamente successivo all’osservazione.
Dunque, tornando al nostro caso, la scelta di guardare la sequenza motoria che andremo ad eseguire e poi addormentarci è perfettamente in linea con il paradigma sperimentale, il che lascia pensare che ne trarremo un beneficio analogo a quello riscontrato dai ricercatori. Tutto ciò –merita ricordarlo- avverrà senza alzarci dal divano, o forse si ma soltanto per andare a letto.

L’insperata efficacia di questo metodo per migliorare la propria abilità accende inevitabilmente l’interesse riguardo due momenti del processo di apprendimento che spesso non ricevono l’attenzione che meritano: l’osservazione ed il sonno.
Analizziamo il forse meno intuitivo contributo del secondo.
Il sonno può essere suddiviso in più fasi tra loro distinte per attività elettrica (onde cerebrali) e neuroendocrina (regolazione chimica) . Una è chiamata REM (rapid eye movement), l’altra è NREM (non-REM) e si declina a sua volta in altri 4 stadi, dei quali i più studiati sono gli ultimi due, accorpati sotto il nome di Slow Wave Sleep (SWS). Le due fasi principali si alternano durante il corso della notte con un ciclo di 90 minuti e, mentre la fase SWS caratterizza la prima parte del riposo, quella REM è più presente nella seconda.
Queste diverse fasi hanno effetti specifici in base al tipo di apprendimento:

  • Le memorie dichiarative – per intenderci quelle legate allo studio di testi o all’ascolto di qualcuno- traggono maggior profitto da periodi di sonno piuttosto brevi (1-2 h) caratterizzati quasi esclusivamente da SWS e poco distanti dal momento di acquisizione.
  • Le memorie procedurali – affinare l’esecuzione di una serie di azioni attraverso la pratica – sembrano invece sensibili alla sola quantità di sonno REM successiva l’apprendimento iniziale, quindi migliorano con l’aumento della quantità di sonno e non sono influenzate dalla lunghezza dell’intervallo che separa il momento dell’acquisizione da quello del riposo.
  • La formazione di memorie procedurali attraverso la sola osservazione – che è il caso da cui siamo partiti- migliora quando un prolungato periodo di sonno è immediatamente successivo all’osservazione.

Per concludere: il sonno è un momento essenziale per ogni processo di apprendimento, conoscerlo ed imparare a sfruttarlo al meglio significa acquisire un potente strumento in più. O se non altro è una valida scusa per rimandare la sveglia al mattino.

Rossano Galtarossa “voga” insieme agli studenti patavini

A cura di Camilla Bosio e Andrea Petromilli

GaltaUni2Durante l’ultima lezione dei laboratori esperienziali condotti da Andrea Di Lenna all’interno del corso “Metodologie di formazione e sviluppo delle risorse umane” della Prof.ssa Monica Fedeli, presso la facoltà di Scienze della Formazione, i docenti hanno arricchito la lezione grazie alla testimonianza diretta di un grande campione del canottaggio mondiale: Rossano Galtarossa.

L’obiettivo di questo intervento è stato quello di far vivere agli studenti, coerentemente con la metodologia che ha caratterizzato tutto il percorso didattico laboratoriale dedicato alla formazione esperienziale, il valore aggiunto che un testimonial sportivo di altissimo livello può fornire per facilitare il raggiungimento degli obiettivi formativi in contesti organizzativi.

Vincitore, tra mondiali e olimpiadi, di 5 medaglie d’oro 2 d’argento e 3 di bronzo, Galtarossa ha coinvolto gli studenti prendendo spunto da alcuni degli episodi più significativi della sua carriera sportiva per parlare, anche grazie al supporto di Andrea Di Lenna, di alcune tematiche particolarmente utili nel mondo del lavoro come: i processi motivazionali, il lavoro di squadra, il ruolo centrale dell’approccio mentale nella gestione del proprio percorso di allenamento e crescita, insieme alla gestione produttiva delle emozioni e dello stress.

Questi sono solo alcune delle competenze che hanno consentito a Galtarossa di partecipare, facendosi sempre trovare al meglio della condizione, alle ultime 6 olimpiadi: da Barcellona 1992 a Londra 2012. Allo stesso tempo, tali competenze, sono particolarmente importanti per migliorare i risultati all’interno dell’attuale scenario lavorativo.

Coerentemente con le richieste della platea sono state anche affrontate alcune tematiche legate a situazioni che potrebbero caratterizzare il futuro professionale dei giovani studenti universitari individuando, contestualmente, delle possibili strategie operative per affrontare il mercato che avranno di fronte.
E’ emerso subito come la competenza di saper lavorare in team, seppur cominci solo di recente ad avere un ruolo centrale nella formazione universitaria, sia sempre più rilevante nell’attuale ambiente di lavoro.
Lo sport, da questo punto di vista, può fornire molti esempi e strumenti considerando che le vittorie, o le sconfitte, sono profondamente collegate alla qualità del lavoro di squadra.

Allo stesso tempo nel canottaggio, così come nel lavoro, è fondamentale che ogni componente del team si alleni individualmente per raggiungere il livello più alto possibile di competenza investendo sulla propria crescita personale e professionale anche quando il contesto in cui si opera è particolarmente ostico e difficile da affrontare.
Nel canottaggio, ad esempio, vuol dire uscire ed allenarsi con la propria imbarcazione anche durante i freddi giorni d’inverno passando buona parte della giornata in solitudine, o dedicare molto tempo ad analizzare i video della propria azione, fotogramma per fotogramma, per capire come migliorare il proprio gesto atletico insieme allo staff tecnico.
Anche se non siamo sportivi di alto livello non è difficile trovare, prendendo spunto anche solo dagli esempi riportati nelle ultime righe, situazioni comparabili nel proprio lavoro in cui ci troviamo, sempre più di frequente, ad affrontare situazioni poco comode ma magari utili, o inevitabili, per raggiungere gli obiettivi su cui siamo focalizzati.

La testimonianza di Rossano Galtarossa ha reso evidente come parlare di sport, senza avere l’ingenuità di aspettarsi un semplice “copia ed incolla”, può essere particolarmente efficace all’interno di contesti che caratterizzano la formazione all’interno dell’organizzazione.
Allo stesso tempo è fondamentale che la testimonianza non sia basata su una sorta di schema tipico di una “intervista giornalistica” post gara, ma deve essere progettata per far emergere comportamenti e processi interessanti che accomunano sport e lavoro.
Per far ciò è fondamentale che oltre ad un testimonial preparato sia presente anche un formatore che faciliti il collegamento tra sport e lavoro valorizzando a pieno tale metafora che, come hanno potuto sperimentare in prima persona gli studenti del corso ed i clienti che si avvalgono dei servizi di Performando, è particolarmente coinvolgente e motivante.

La perdita di controllo legata allo stress

a cura di Camilla Bosio

stress4A tutti sarà capitato di non riuscire a mantenere il controllo, di agire in modo inconsueto o di provare emozioni curiose senza averne ben chiara la reale causa; recenti ricerche presentate in un articolo della rivista “Mente e cervello” (aprile 2012), delineano lo stress come causa scatenante della perdita del controllo.
Invece di concentrarsi sull’ipotalamo, i ricercatori hanno riscoperto il ruolo significativo della corteccia prefrontale, centro di controllo delle facoltà cognitive superiori quali concentrazione, giudizio, capacità di evocare i ricordi…

In condizioni normali, questa struttura inibisce pensieri e azioni inappropriate e tiene a bada le nostre emozioni, e gli impulsi più bassi; quando però si è sotto stress, i nostri più sofisticati circuiti cognitivi si disattivano e le aree del cervello profondo prendono il controllo del nostro comportamento, attivando meccanismi primordiali: in poche parole, perdiamo la testa!!

Ciò può avere conseguenze rilevanti, come fare spese pazze, esagerare con il cibo o nei casi più gravi bere bevande alcoliche o fare uso di droghe.
Fra gli effetti collaterali vi sono anche depressione o disturbi d’ansia, con delle differenze di genere; le donne sono più a rischio di depressione mentre negli uomini viene aumentato il “craving”, ossia un desiderio impulsivo per un oggetto, una sostanza o un qualsiasi comportamento gratificante.

Perché il cervello dispone di meccanismi innati che indeboliscono le proprie funzioni cognitive superiori?

La risposta può essere legata all’istinto di sopravvivenza; quando per esempio un guidatore spericolato ci taglia la strada, il nostro cervello ci mette immediatamente in condizione di schiacciare con forza il pedale del freno, ci prepara a bloccarci di colpo o a prepararci alla fuga, come sarebbe successo secoli fa davanti ad un pericoloso predatore.

L’uomo però non è impotente di fronte allo stress, può arginare le sue conseguenze grazie a strategie comportamentali come il rilassamento o la meditazione; ulteriori studi hanno dimostrato infatti che riuscire a superare e gestire esperienze stressanti ed impegnative aiuta a sviluppare resilienza.

Performando e PepsiCo partner per l’anno 2012-2013

partnerPepsiPepsiCo rinnova la collaborazione con Performando per l’anno 2012 – 2013 attraverso la distribuzione dei suoi prodotti, in particolare quelli con il marchio Gatorade, durante le attività di Outdoor Training.

L’azienda è presente sul mercato italiano dal 1960 grazie ad accordi di franchising e dal 1995 con una vera e propria filiale che si avvale oggi di circa 200 persone, con 1 sito produttivo di proprietà e due di proprietà di terzi.
PepsiCo Italia opera principalmente nel settore delle bevande analcoliche e, in particolare, in due categorie: le bevande gassate (CSD) a cui si aggiungono nel 2002 le bevande isotoniche (Sport Drinks) con Gatorade.
Nel 2006 entra nel portafoglio il succo di frutta n°1 al mondo Tropicana, un brand con una storia di oltre 50 anni di costante crescita e innovazione della categoria.
Nel 2007 è stata infine siglata un’importante joint venture con Unilever che riguarda la produzione, la commercializzazione e la promozione del tè freddo Lipton.
Da gennaio 2011 distribuisce anche i succhi Looza in esclusiva nel mercato dell’Horeca.

Menu