Ottimismo vs. Pessimismo; chi vince?!

 a cura di Sebastiano Cutrupi

ottim“La Repubblica” del 20 dicembre 2012 pubblicava un interessante articolo di Federico Rampini il quale, prendendo spunto dal libro Prozac Leadership del prof. Collison, attua una mirata disamina della storica contrapposizione tra pensiero “ottimista” e “pessimista” (positive vs. negative thinking).

Seguendo il ragionamento di Rampini emerge che la cultura del positive thinking è nata in Usa diffondendosi poi nel mondo occidentale e determinando quella che Collison definisce una sorta di dittatura del conformismo sfociata nel crac economico del 2008. A tal proposito, cita lo sgomento dei banchieri di fronte alle proteste del movimento Occupy Wall Street come esempio della perdita di legame con la realtà che una visione forzatamente ottimistica potrebbe causare – «Perché ce l’hanno con noi, cosa abbiamo fatto?!». Collison continua sostenendo che la criticità sia una cultura la quale impone di nascondere le proprie paure ed incertezze, mostrandosi vogliosi di riuscire e ciechi di fronte ai rischi. In tal senso, Laurence Peter ha coniato un’ironica teorizzazione secondo la quale all’interno di ogni organizzazione ciascuno viene promosso fin quando raggiunge il livello di responsabilità per il quale è del tutto incompetente, e ciò comporterebbe una sostanziale impossibilità del “successo finale”, sulla base di un enorme diffusione di manager inadeguati. Probabilmente, però, ciò contro cui si scagliano gli autori non è l’ottimismo reale quanto la sua degenerazione, il cosiddetto ottimismo ottuso che persegue scopi attraverso vie e percorsi totalmente disancorati dal mondo reale ed oggettivo. Lo stesso Rampini, chiudendo l’articolo, precisa che l’ottimismo positivo (ma non illusorio) è il motore del progresso e della crescita umana; riallacciandoci a tale puntualizzazione possiamo far luce, ad esempio, sulle migrazioni: la nostra specie non si sarebbe diffusa nel mondo se non ci fosse stato un minimo di ottimismo a guidare i nostri avi nelle prime esplorazioni di terre totalmente sconosciute, così come ora non avremmo gli agi e le comodità di cui godiamo se una sfilza di (visionari ma ottimisti) inventori e creativi non si fossero dati da fare.

Ecco che l’equilibrio sembra essere la chiave di lettura più efficace: troppo pessimismo bloccherebbe l’azione, ponendoci in una condizione di immobilismo spaventato ed inquieto; allo stesso tempo, però, una visione ottimisticamente idealistica della vita condurrebbe senza dubbio al precipizio dell’irreale. Qui si inserisce il lavoro di Martin Seligman il quale, nei suoi lavori, evidenzia l’importanza del “credere” e dell’approcciarsi alla vita senza farsi “assalire” dalla negatività, affinché la vita non solo appaia ma sia effettivamente vissuta in modo positivo, non illusorio né, soprattutto, offensivo nei riguardi del nostro diritto di vivere nel miglior modo possibile. Esempio opposto risulta essere quello che scaturisce dalle ricerche di Beck (1967; 1961) i cui studi hanno messo in luce come, in pazienti affetti da sindromi depressive o da stati emotivi tendenzialmente negativi, si configurasse quella che Beck chiamò la “Triade cognitiva”: visione negativa di sé (sentirsi inadeguato o difettoso) e del mondo (interpretare negativamente le interazioni con l’ambiente) che si legano ad un’ulteriore concettualizzazione negativa del futuro (pessimismo). Un giusto equilibrio fra i due thinking (positive e negative) appare, invece, come il modo più sensato di vedere ed affrontare le cose: una concezione del rischio, del pericolo e dell’imprevedibilità del reale (negative) come sfondo tenue ma presente in un moto costante e perpetuo verso il nuovo, il diverso e possibilmente migliore (positive), che non sono sinonimi ma spesso si accompagnano vicendevolmente.

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