a cura di Bruno Durante
Ci è capitato recentemente di intervenire in un contesto dove era necessario “sbloccare” alcune situazioni relazionali non propriamente basate sulla collaborazione. Per farlo, tra le altre cose, abbiamo rispolverato un’esercitazione evergreen: il dilemma del prigioniero. Molti di voi conosceranno il famoso esercizio; si tratta di uno degli esempi classici della teoria dei giochi utilizzato al fine di mostrare cosa succede quando i giocatori hanno a loro disposizione scelte contrastanti tra loro.
La situazione può essere così descritta: due malviventi sono fermati dalla polizia mentre cercano di vendere un oggetto rubato. I poliziotti sanno che i due hanno commesso la rapina, ma non avendo prove per incriminarli, decidono di indurli a confessare. La coppia viene dunque divisa, e a ciascun criminale viene detto: “Sappiamo che siete colpevoli, anche se non possiamo dimostrarlo; ma intanto vi possiamo tenere dentro un annetto per ricettazione. Se però uno solo di voi confessa, lo libereremo e metteremo in carcere l’altro per dieci anni. Se invece confessate entrambi, vi farete cinque anni a testa”.
Concluso il discorso, i malviventi vengono mantenuti separati, in modo tale che nessuno dei due sappia la scelta dell’altro.
Come si comporteranno i due?
Questo “gioco” viene usato in molte discipline (sport, economia, biologia…) per spiegare, o almeno per provare a farlo, il perché di alcune situazioni e scelte che vediamo tutti i giorni.
Dal punto di vista delle “relazioni in azienda” ritengo che questo “gioco” sia esemplificativo di una situazione che si propone di continuo. La nostra attività ci porta a lavorare sulle dinamiche per creare team performanti, per superare tensioni e inefficienze, per creare lean relationships ecc.
Tutte cose importantissime che si scontrano con la difficoltà del singolo, più o meno consapevole, di rinunciare a qualcosa (magari di immediato) a favore del team, in modo da conseguire tutti dei vantaggi. Razionalmente tutti sono concordi nel dire che è corretto sostenere, collaborare, mediare… ma poi, nei comportamenti quotidiani, questo non risulta essere così automatico.
E quindi, giocando “il dilemma” emerge come la componente razionale sia fortemente influenzata dal vissuto emotivo delle persone.
Il fenomeno, a mio avviso, si è accentuato negli ultimi tempi con la situazione difficile che stiamo vivendo. La cosa è probabilmente spiegabile per il fatto che il nostro istinto e la nostra emotività tendono a prendere il sopravvento a discapito della razionalità nei momenti di tensione (R. L. Montalcini docet).
Come fare allora? Su quali leve agire per superare l’impasse? Come fare in modo che l’emotività sia a supporto e non in contrasto con la razionalità…?
Forse creare delle condizioni dove la fiducia in sé e negli altri siano manifestate nei comportamenti, e non solo a parole, è la chiave.
Serve allora alimentare dei contesti dove ci sia la possibilità di essere più se stessi, dove il singolo possa esaltare le proprie capacità e dove i feedback positivi e negativi siano visti come sostegno alla crescita reciproca.
La ricetta magica non ce l’abbiamo, qualche buona idea si, e qualche altra idea magari ci può venire in mente giocando il “dilemma del prigioniero” con le persone delle nostre organizzazioni…