Nati per resistere?

a cura di Sara Caroppo

resilienzaSe facessimo una lista dei termini più usati nell’ultimo periodo, quello della “resilienza” risulterebbe di certo ai primi posti.

Se prima con il concetto di resilienza si indicava la proprietà dei metalli di resistere a delle forze opposte, senza spezzarsi, con il passare del tempo il termine ha conosciuto larga diffusione, andando a coinvolgere anche altre discipline.

In maniera particolare quella che a noi può interessare è la definizione che gli studiosi del comportamento umano danno delle persone resilienti.

Il resiliente è colui che “persiste nel raggiungere obiettivi sfidanti, fronteggiando in maniera efficace difficoltà ed eventi negativi”; resta da stabilire a questo punto se la resilienza sia una caratteristica di tutti o una prerogativa di pochi.

Di certo il fronteggiare le avversità che la vita pone davanti piuttosto che gestire in maniera efficace ed equilibrata dei cambiamenti personali o professionali dipende dalla personalità di ciascuno, ma questo non può bastare per definire una persona resiliente o meno.

Ricerche in campo psico-sociale infatti dimostrano che tutti gli esseri umani sono progettati per affrontare le difficoltà: essere resilienti non è l’eccezione, bensì la regola.

A questo proposito riportiamo uno studio, apparso sulla rivista Nature qualche anno fa (Endurance running and the evolution of Homo, 2004) che coloro che studiano i processi della resilienza riportano come significativo per comprendere ancora meglio il concetto.

Secondo le decennali ricerche dei due biologi contenute nell’articolo, noi esseri umani non siamo nati per stare fermi o camminare, ma per correre.

Bramble e Lieberman (gli autori della ricerca) hanno analizzato in dettaglio le differenza tra l’Homo sapiens e i suoi ominidi predecessori e ciò che hanno rilevato è che “l’uomo si è distaccato dagli altri primati modificando le sue abitudini alimentari, sessuali, sociali e di linguaggio, grazie ad un comune denominatore corporeo di adattamento alla corsa di lunga durata.”

La capacità di correre a lungo ha fatto in modo che l’uomo si staccasse dal resto del gruppo e si evolvesse, inizialmente solo da un punto di vista scheletrico, poi anche sotto altri aspetti, tra cui quello cerebrale.

Detto in altri termini, l’evoluzione dell’uomo ha fatto in modo che egli fosse fisicamente predisposto per resistere agli sforzi di lunga durata.

Questo il motivo per cui chi studia la resilienza prende come riferimento gli studi dei due biologi.

La natura ci ha reso resistenti allo sforzo.

Se da una parte tutto ciò conferma il presupposto che siamo capaci di affrontare, superare e uscire dalle difficoltà, dall’altra è d’obbligo guardare con un occhio critico la questione e chiedersi: qual è il limite oltre il quale non si parla più di resilienza?

Il rischio che si può correre infatti è confondere la propria capacità di resilienza con quella di sopportazione o ostinazione.

Il problema è che i concetti sono diametralmente opposti.

Volendo usare un’immagine, è come se raccontassimo di aver affrontato un temporale andando in cerca di un riparo o aspettando immobili che la pioggia smettesse di cadere.

In entrambi i casi il momento di difficoltà avrà un suo termine.

La considerazione da fare però è se nel frattempo la nostre risorse cognitive ed emotive si sono impoverite o al contrario hanno trovato nella situazione un momento di sviluppo.

Perché solo quando c’è crescita c’è vera resilienza.

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