Lo smartworking come motore di cambiamento e miglioramento

a cura di Mario Bassini

Con il passare del tempo, quella che era nata come risposta temporanea a una situazione di emergenza (ne avevamo parlato nelle settimane di maggior criticità della pandemia), sta diventando una formidabile opportunità di cambiamento grazie, soprattutto, alla sua diffusione e al protrarsi nell’applicazione. Se in primavera “concedersi” lo smartworking significava reggere l’impatto del momento, ora possiamo vederlo anche come elemento organizzativo e gestionale strutturale e duraturo.

E’ questo probabilmente uno dei pochissimi aspetti positivi del protrarsi di una criticità generale di cui avremmo sicuramente fatto volentieri a meno: vale la pena darsi da fare per riuscire a stabilizzare questi elementi, consolidando la fase di cambiamento (forzato) in miglioramento (acquisito).

Alzi la mano chi non si è trovato, diciamo più o meno tra maggio e giugno, alle prese con qualche importante portatore di interesse, normalmente posizionato ai piani più alti delle chart organizzative, che, quasi tirando un sospiro di sollievo, non si sia espresso con frasi del tipo “bene, festa finita: questa vacanza dello smartworking può dirsi conclusa e si può tornare a lavorare; era ora!”

Persino eminenti personaggi con importanti incarichi di amministrazione pubblica e/o di governo, di varia natura, ha espresso concetti analoghi, salvo poi avventurarsi in sessioni di alpinismo da vetro sostenendo di esser stato frainteso nel suo pensare “all’effetto grotta che rischiava di affliggere nel tempo intere falangi di lodevoli dipendenti comunali, costretti all’isolamento lavorativo da mesi”.

Il cambiamento culturale delle organizzazioni è lento e difficile, soprattutto per quei contesti dove, giusto per fare un esempio di facile comprensione, si centra la valutazione di performance dei collaboratori sulla base della presenza fisica in ufficio, perché si è ancora abituati a dover percepire una sorta di “senso di possesso”, che non trova corrispondenza nell’eterea, impalpabile dimensione delle call Skype, Zoom o Teams.

Eppure le organizzazioni hanno in moltissimi casi retto benissimo, hanno saputo reagire, sono andate immediatamente a caccia di opportunità, cogliendole, laddove si presentavano, senza tentennamenti o rallentamenti, dimostrando in modo tangibile che anche gli smartworker hanno saputo lavorare bene, con efficacia ed efficienza, nonostante la situazione.

Certo forse però è mancata una componente essenziale: c’è bisogno di un po’ più di tempo, e di lavoro, per veder emergere una nuova generazione di smart manager, soprattutto perché c’è da convertire e resettare una folta schiera di capi che con queste nuove leve gestionali non aveva mai avuto a che fare in precedenza.

Sullo smart manager (degni di nota interessanti approfondimenti in proposito sulla rivista periodica ISPER di settembre, contenuti in una tesi di laurea discussa in uno di quei luoghi dove il tema è studiato da tempi non sospetti, ovvero il Dipartimento di Psicologia dell’Università degli studi di Milano), avremo modo di tornare, perché merita un approfondimento.

Soffermiamoci invece sullo smartworker e sul suo momento di transizione che, come detto più sopra, può trovare giovamento dal fatto che questa situazione si sta prolungando nel tempo: per un verso il popolo dei detrattori ha a disposizione nuovi e/o rinvigoriti argomenti – l’orario di lavoro è diventato liquido, ho perso la dimensione sociale, mi hanno tolto il buono pasto, devo usare la mia wifi, la mia stampante, il mio impianto di condizionamento/riscaldamento, la mia macchinetta del caffè, la mia corrente elettrica,…), per un altro gli entusiasti comprendono e apprezzano la riduzione di molti dei costi di natura psico-fisiologica e logistica della prestazione lavorativa, il vantaggio di una spazio-temporalità più libera (anche se in modo talvolta differente a seconda dei ruoli), la crescita della responsabilizzazione individuale (se percepita come opportunità).

Teniamo conto poi del diverso ageing della popolazione aziendale: i più giovani sono sicuramente quelli che maggiormente richiedono, fin dalle fasi di selezione, se il contesto prevede o meno modalità di lavoro agile ma poi magari ne lamentano il derivante rischio di esclusione, o solo parziale inclusione, nella dimensione sociale e di scambio/trasferimento di competenze, che lo stesso comporta.

Sicuramente da presidiare attentamente il tema, evitando il rischio di un eccessivo “scollamento” tra giovani e veterani. Di contro i colleghi dotati di maggiore anzianità aziendale avranno magari ragionato ironicamente “mi sono mancati i colleghi, il mio capo, l’ufficio…poi però, una volta ritrovati, questo senso di nostalgia si è subito sopito!”

Ma, detto che molti di questi aspetti non possono certo essere definiti sorprendenti, la sintesi del tragitto fatto fino a qui dice che chiunque di noi si trovi a lavorare a vario titolo al servizio delle persone e delle organizzazioni, ha una grande occasione e un’altrettanto grande opportunità: smart working sì ma ben posizionato e gestito, a livello qualitativo e, laddove possibile, quantitativo.

Ai professionisti dell’HR spetta il compito di lavorare per trovare un equilibrio e una linea cui tendere nel lungo periodo, quando l’emergenza sarà definitivamente risolta.

Serve governare il fenomeno con intelligenza e lungimiranza, perché non prevalga l’approccio emergenziale, come in parte è stato finora.

Il vantaggio del prolungamento di questa esperienza “spintanea” sta nel fatto di avere più tempo a disposizione per convincere anche i più resistenti a comprendere, su basi concrete, che in realtà si tratta di una formidabile opportunità e di una potente risorsa che non solo ha costi tutto sommato risibili ma, anzi, in molti casi può rappresentare una fonte di risparmio sui costi aziendali: ci sono organizzazioni che questi conti li hanno già fatti e stanno ripensando agli uffici, al parco auto, ai costi per trasferte, mense aziendali, e tanto altro.

I professionisti dell’HR devono saper contribuire a cogliere, evidenziare e misurare questi aspetti, oltre che gestire accordi e policy strutturate e coerenti, con le quali definire le cornici e le reciproche opportunità.

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