Recensioni

“Invictus” – regia di Clint Eastwood

invictus-locandinaRegista: Clint Eastwood

Interpreti principali: Morgan Freeman, Matt Damon

Anno di uscita: 2009

Distribuzione: Warner Bros

 

Recensione a cura di Andrea Di Lenna

Tratto dal libro “Ama il tuo nemico”, di John Carlin, il film racconta la storia del neopresidente Nelson Mandela durante i suoi primi mesi di gestione del Sudafrica, che stava con difficoltà cercando di uscire dall’isolamento culturale ed economico conseguente al rigoroso regime di apartheid.
Dopo ventisette anni di reclusione come terrorista nelle prigioni di Robben Island, Nelson Mandela ha infatti la possibilità di fare un significativo passo avanti nella politica di integrazione tra popolazione bianca e di colore, possibilità che il presidente coglierà nel 1995 in occasione dell’organizzazione dei campionati di rugby, ospitati proprio dal Sudafrica. Il neopresidente intuì che la vendetta nei confronti dei bianchi sarebbe stata la peggior soluzione per il suo paese e decise di elaborare una strategia di riconciliazione che utilizzerà la disciplina del rugby come collante per una popolazione da decenni in guerra. Mandela, interpretato da Morgan Freeman, attore esplicitamente richiesto a Eastwood dal vero Mandela per tale ruolo, comincerà quindi a tessere relazioni sempre più profonde e costruttive con Francois Pienaar, capitano del Sudafrica, interpretato da Matt Damon, che cambierà nel corso del film la sua opinione sul suo nuovo presidente di colore.
Il racconto assume una particolare rilevanza in considerazione del fatto che Mandela supporterà, ed inciterà tutta la popolazione nera a farlo, la squadra degli “Springbocks”, soprannome con cui erano battezzati i giocatori sudafricani dai loro supporters bianchi. Il presidente deciderà infatti di diventare tifoso di una disciplina sportiva tipicamente bianca e simbolo del potere oppressivo dei bianchi, a tal punto che fino a quel momento la popolazione di colore, in occasione delle partite internazionali contro le altre squadre del mondo del rugby, tifava sempre per gli avversari degli Springbocks. Alla fine del film, ma soprattutto della storia vera, la squadra del Sudafrica affronterà la temibile squadra degli “All Blacks”, la celeberrima nazionale neozelandese della palla ovale che, grazie anche al grande coinvolgimento dei tifosi presenti allo stadio, ma soprattutto dei quarantacinque milioni di telespettatori sudafricani, uscirà sconfitta dalla finalissima per l’assegnazione del trofeo di campione del mondo, che andrà quindi per la prima volta al paese africano.
Nelson Mandela riuscì in quell’occasione a far trionfare l’intero popolo del Sudafrica, per la prima volta unito nel supportare la squadra dello sport così amato dai bianchi quanto odiato in precedenza dai neri. Questo fu dunque l’episodio che portò Mandela ad esprimere la sua famosa frase “Sport has the power to change the world”, che ci capita così spesso di utilizzare nei nostri corsi di formazione che utilizzano proprio la metafora dello sport.

La scena da non perdere:
la parte iniziale del film, in cui Nelson Mandela si comporta con grande coerenza nei confronti delle sue guardie del corpo, alcune di colore ed alcune bianche, proponendosi quale esempio concreto tangibile della sua politica di riconciliazione, sia pur tra mille dubbi, incertezze e rischi. Ma, come avrà modo di dichiarare durante il film, “una delle responsabilità di un leader è quella di rischiare”! .

A chi lo consigliamo:
a chi è interessato alle tematiche della leadership attraverso l’esempio come essenziale meccanismo di comunicazione e di motivazione delle persone.

Pensieri lenti e veloci di D. Kahneman

pensierilevAutore: Daniel Kahneman

Anno di pubblicazione: 2012

Editore: Oscar Mondadori

Numero di pagine: 548

Costo: 22,00 euro

 

Recensione a cura di Daniele Tramannoni

Daniel Kahneman: “uno psicologo vincitore del premio Nobel per l’economia”.

Se anche voi per un attimo avete pensato: “Che strano!”, allora avete avuto la mia stessa impressione quando ho letto la biografia di Daniel Kahneman, docente di psicologia a Princeton, premiato a Stoccolma «per avere integrato risultati della ricerca psicologica nella scienza economica, specialmente in merito al giudizio umano e alla teoria delle decisioni in condizioni d’incertezza».

Estremamente incuriosito ho deciso di acquistare il suo libro più famoso: “Pensieri Lenti e Veloci”, pubblicato in Italia nel 2012.

La cosa che stupisce maggiormente di questo libro, e il motivo per cui vi invito a leggerlo, è che l’autore dimostra che la scienza può essere divertente senza perdere il suo rigore.

Kahneman riesce pienamente nell’intento di rivelarci i meccanismi più profondi del nostro cervello con relativa semplicità, narrando una storia dalla trama avvincente.

Il pensiero umano, spiega l’autore, funziona in base ai due sistemi protagonisti del racconto:

– Il Sistema 1, o Pensiero Veloce, inconsapevole, intuitivo e che costa poca fatica.

-Il Sistema 2, o Pensiero Lento, consapevole, che usa ragionamenti deduttivi e richiede molta più concentrazione.

Nelle nostre azioni quotidiane ognuno di noi è continuamente guidato dall’alternanza di questi due sistemi.

Il sistema 1 è quello che si attiva nel momento in cui, entrando in casa dopo una giornata di lavoro, notiamo un’espressione insolita in un nostro familiare.

Si tratta del pensiero istintivo che si attiva rapidamente per decodificare il mondo che ci circonda e ci permette di reagire istantaneamente.

Rispondere invece ad un’operazione di calcolo, ad esempio 14 x 37, richiede l’attivazione del sistema 2, più lento, ma l’unico in grado di analizzare in profondità le situazioni, confrontare le varie caratteristiche degli oggetti, e operare scelte oculate tra varie opzioni.

Noi spesso ci illudiamo di farci guidare dal Sistema 2, siamo sicuri di prendere le decisioni dopo un’ attenta riflessione; in realtà è il Sistema 1 a controllare la nostra vita per la maggior parte del tempo, anche perché il Pensiero Lento è “pigro”, si affatica presto.

Gran parte delle riflessioni di questo libro riguardano i bias dell’intuizione e ci spiega come riconoscerli.

Individuare l’errore, però, non significa denigrare l’intelligenza umana, così come il concentrarsi sulle malattie proprio dei manuali di medicina non significhi negare la buona salute.

Vivendo la nostra vita ci lasciamo di norma guidare da impressioni e sensazioni, e la fiducia che abbiamo nelle nostre convinzioni e preferenze intuitive è solitamente giustificata e necessaria.

Perché, se è indiscutibile che il Sistema 1 è all’ origine della maggior parte dei nostri errori, è anche vero che produce tante “intuizioni esperte”: si pensi a quei riflessi automatici, essenziali nella nostra vita per prendere decisioni importanti in poche frazioni di secondo.

Il chirurgo in sala operatoria, il vigile del fuoco di fronte a un incendio, attraverso il Pensiero Veloce, fanno scelte di vita e di morte per gestire le emergenze, e molto spesso prendono la decisione giusta in quei pochi attimi.

Il valore aggiunto del libro, in confronto alle classiche pubblicazioni di carattere scientifico, è proprio il fine pratico degli argomenti trattati e il riscontro nella vita quotidiana di ognuno di noi.

L’autore infatti propone alcuni stratagemmi utili a identificare e comprendere gli errori di giudizio più comuni e ridurre il più possibile le scelte sbagliate.

Vi invitiamo quindi a leggere il libro per approfondire tali tematiche e conoscere i consigli dello psicologo, premio nobel per l’economia.

Felicemente #sconnessi. Come curarsi dall’iperconnettività.

 

coverfsconnAutore: Frances Booth

Anno di pubblicazione: 2014

Editore: De Agostini

Numero di pagine: 224

Costo: 12,90 euro

 

Recensione a cura di Sara Caroppo

Ci hanno presentato internet come la soluzione a tutti i nostri problemi, la posta elettronica come il mezzo efficace per avere comunicazioni efficienti, gli smartphone e i tablet come simboli dell’era 2.0 il cui possesso sancisce la divisione tra chi è “in” e chi “out”.

Cosa si sono dimenticati di dirci?

A parere di Frances Booth, autrice del libro, molte cose.

A partire dal fatto che, in casi estremi, avremmo potuto perdere il contatto con il mondo reale.

Previsione catastrofica?

A leggere il libro non si direbbe.

Chi fosse stato incuriosito da questa premessa e volesse leggere il manuale infatti , andrebbe incontro a riflessioni ed evidenze oggettive, frutto di studi e ricerche a livello internazionale, che confermano quanto detto fino ad ora.

L’autrice parte da una descrizione quanto mai attuale e condivisa degli effetti nocivi dell’era digitale in cui ci troviamo, e arriva ad elencare e spiegare i nove passi necessari per percorrere il viaggio di disintossicazione dall’iperconettività.

La partenza di questo viaggio è uguale per tutti, si richiede cioè un’esame di coscienza su quello che siamo diventati a furia di accarezzare schermi e premere tasti.

L’arrivo anche, ovvero il recupero della nostra capacità di concentrazione, ormai andata persa su qualche nuvola del web.

La tipologia di persona che può intraprendere un percorso del genere invece è indefinita: l’iperconnettività purtroppo riguarda tutti, perfino i bambini; a dirlo è proprio una delle tante ricerche che si trovano nel libro.

Un’indagine su 2200 madri in 11 paesi ha rilevato infatti che il 70% dei bambini dai 2 ai 5 anni è a proprio agio con i videogiochi e con gli smartphone dei genitori, ma solo l’11% è in grado di allacciarsi le scarpe.

Memoria, sonno, piacere del viaggio, creatività, capacità di ascolto e di apprendimento, capacità di costruire relazioni solide e stabilire rapporti umani fisici reali: ecco cosa stiamo perdendo a furia di dare priorità alla tecnologia.

E questo vale tanto per la sfera personale quanto per quella professionale.

Zygmunt Bauman, è arrivato addirittura a dire che: “…davanti ad un computer non riusciamo a pensare a lungo termine, ci aspettiamo soluzioni immediate ad ogni cosa. Il risultato è una crescente incapacità di aspettare e sacrificarci per un obiettivo…”

Che vi ritroviate o meno in queste descrizioni, il libro è un buon modo per guardarsi allo specchio e darsi la possibilità di ritrovare la retta via, se perduta, o semplicemente di conoscere qualche trucco in più per essere concentrati e focalizzati.

Se poi siete ancora indecisi sul definirvi iperconnessi o meno, contate quante volte, leggendo questo breve articolo, siete stati distratti da qualche notifica sul pc o sul telefonino, o avete interrotto momentaneamente la sua lettura per fare dell’altro…

“Elogio della fatica”, il nuovo libro di Matteo Rampin.

 elogio_della_faticaIn una società contemporanea basata sulla filosofia del “è buono solo ciò che è facile e leggero”, Matteo Rampin pubblica il suo “Elogio della fatica. Vincere, senza segreti” , un libro controcorrente che vuole far riflettere i lettori sull’importanza che ha la fatica nella vita di tutti di giorni, intesa come sforzo che coinvolge non solo la fisicità ma anche la sfera emotiva e soprattutto mentale.

Quale metafora migliore per parlare di fatica se non quella dello sport? Nasce così una collaborazione tra Rampin e dieci campioni sportivi : Mirco Bergamasco (rugby), Igor Cassina (ginnastica artistica), Luca Dotto (nuoto), Christof Innerhoffer (sci), Pino Maddaloni (judo), Mikhai Ryzhov (marcia), Clemente Russo (pugilato), Alessandra Sensini (vela), Tullio Versace (rally).

Loro compito: raccontare la propria esperienza e mettere a disposizione dei lettori consigli per imparare ad affrontare e sfruttare lo sforzo.

Tra i protagonisti del libro c’è anche Rossano Galtarossa, pluri premiato campione olimpico nella disciplina del canottaggio che collabora con Performando da diversi anni come testimonial sportivo e trainer.

Ecco le parole di Galtarossa a proposito del suo rapporto con la fatica: “la considero la mia compagna di viaggio. Il mio obiettivo è semplice: vedere se ce la faccio. In questo modo la fatica non è più un ostacolo, ma uno sprono, un’occasione per mettermi alla prova e superarmi, e dunque uno strumento per migliorarmi”.

“La differenza la fa la testa” dice Rampin nella sua intervista radiofonica su Miracolo Italiano (programma Rai); nello sport la fatica assume moltissime sfaccettature e significati, richiede uno sforzo che fortifica il corpo ma rende anche più consapevole l’uomo dei suoi limiti e dei suoi risultati e può portare dunque a grandi soddisfazioni.

L’atteggiamento mentale ci porta ad accettare le sconfitte ed a lottare per il traguardo.

La fatica dunque va elogiata.

“Nel mezzo del casin di nostra vita?…”: il nuovo libro di Matteo Rampin

 DANTERAMPINMatteo Rampin, psichiatra e psicoterapeuta di fama nazionale con cui Performando collabora da anni sui temi del problem solving non convenzionale e del cambiamento nei sistemi resistenti, esce in libreria con il suo nuovo libro “Nel mezzo del casin di nostra vita? Indizi e tracce per trovar la via d’uscita”.

Il titolo del libro è evocativo di quello che il lettore troverà al suo interno.

Attingendo alla rappresentazione dei dannati dell’”Inferno” di Dante , Rampin prende i peccati capitali che caratterizzano la condizione umana , a cui aggiunge Malinconia e Menzogna, e ne descrive per ognuno origini e “inviluppo”, esplicitandoli in quelli che sono i malesseri della società odierna.

Come per l’opera Dantesca, il libro è costituito da 33 capitoli. Ognuno ha il suo girone vizioso.

Il fil rouge che lega le due opere è legato al concetto del contrappasso.

Come nei gironi infernali del poeta fiorentino le persone sono costrette a soffrire ciò che hanno desiderato in vita, così nel libro di Rampin l’uomo moderno desidera ciò che in realtà lo fa stare male.

Al desiderio di amore corrispondono relazioni malsane, al desiderio dei soldi corrisponde la perdita del tempo libero, al desidero della salute a tutti i costi, corrispondono tentativi disperati che portano la persona ad ammalarsi sul serio.

È prevista la salvezza per i lettori del libro?

Assolutamente sì.

Rampin infatti pagina dopo pagina guida i lettori verso soluzioni spesso a portata di mano, e indica loro la via d’uscita.

A tutti coloro che sono curiosi di conoscere o scoprire quei “gironi” che , più o meno consapevolmente caratterizzano la propria vita e quella delle persone con cui si relazionano, una buona lettura!

Consigli di lettura_ La scienza del giocattolaio

CoeroBorgaAutore: Davide Coero Borga

Anno di pubblicazione: 2012

Editore: Codice edizioni

Numero di pagine: 224

Costo: 24,90 euro

 

Recensione a cura di Sara Caroppo

La scienza del giocattolaio fa parte di quei libri che ti riportano indietro nel tempo a quando eri bambino e passavi giornate intere a giocare senza mai stancarti e poi finivi a letto distrutto, ma soddisfatto di aver completato il tuo “lavoro”.

Questo libro non è “una” storia, ma “la” storia dei giocattoli che ci hanno tenuto compagnia durante l’infanzia.

Ti spiega perché e come sono stati inventati, ti racconta le curiosità che mai immagineresti fossero legate loro e soprattutto ti dice cosa c’è dietro al loro funzionamento.

Qualche esempio.

Quanti sanno che i Lego sono usati dalla Nasa per simulare gli spostamenti dei rover su Marte?

Quanti sanno che la molla Slinky è entrata nelle università americane come modello di studio delle proprietà delle onde?

E che sono stati utilizzati più di duecentomila pezzi di Meccano (tenuti insieme da cinquantaseimila bulloni) per costruire un ponte (reale) sul Liverpool Pier Head, davanti al Royal Liver Building grazie alla collaborazione di cinque team di architetti e ingegneri?

Circa 200 pagine che si leggono molto velocemente per apprezzare l’utilità didattica del gioco e riscoprire quanto si può imparare e scoprire, divertendosi. Un libro che conferma l’approccio di Performando nell’usare la metafora del gioco come momento di apprendimento e riflessione.

Il passaggio da non perdere:
Scelta difficile. Ci sono 31 schede, una per ogni gioco del nostro passato.
Il consiglio è : aprire l’indice, individuare il proprio gioco tra quelli elencati e iniziare da quello.

A chi lo consigliamo:
A chi ancora adesso, da adulto, crede che il miglior modo di imparare sia farlo divertendosi.

Consigli di lettura_ Management e rugby: strategie vincenti

copAutore: Massimiliano Ruggero

Anno di pubblicazione: 2012

Editore: Gruppo 24 ore

Numero di pagine: 153

Costo: 18 euro

 

Recensione a cura di Sara Caroppo

Lavorare con le persone e per le persone è l’attività più difficile ma nello stesso tempo più gratificante che esista.

Ai formatori il lavoro quotidiano richiesto è quello di mettere le persone nelle condizioni di pensare in maniera diversa, facilitare quel “salto” di qualità che comunque inizierà e finirà sempre attraverso loro.

A chi si occupa di sviluppo e cambiamento è richiesto di parlare non solo con la testa delle persone, attraverso dei concetti, ma anche e soprattutto con la loro emotività, attraverso metodi alternativi.

Chi si occupa di formazione attraverso modalità non convenzionali sceglie questo percorso: arrivare alla testa attraverso le emozioni.

Chi si occupa di formazione utilizzando la metafora dello sport fa altrettanto.

Il gioco diventa quindi il passaggio, divertente ma impegnativo, verso nuove consapevolezze.

Il punto di partenza di questo libro è per l’appunto questo.

Lo sport, che come dice Sebastian Coe, “ha il mondo dentro”, è un tramite efficace perché le persone nelle organizzazioni possano fare il loro salto di qualità e avere un’opportunità di crescita.

Anche quando “crescere” vuol dire giocare.

In particolare l’obiettivo che si pone “Management e rugby: strategie vincenti” è quello di spiegare i punti di contatto tra la metafora del gioco del rugby e la formazione aziendale, e di come il rugby non sia solo una disciplina sportiva ma “un modo di vivere, di confrontarsi con l’altro” (J. Kirwan)

Il parallelismo tra il mondo del rugby e quello aziendale è efficace proprio perché il rugby mette le persone nella condizione di recuperare la loro parte emotiva, quella parte che quotidianamente mettono all’angolo, al fine di esaltare logiche di tipo manageriale e quindi più prettamente razionali.

Oltre al risveglio della parte più viscerale, il rugby si presta bene anche ad altri parallelismi, che l’autore descrive in maniera dettagliata nel suo libro e che quindi non sveliamo.

Nel libro infatti Massimiliano Ruggiero, manager di una grande banca italiana e in passato giocatore professionista in questa disciplina, affronta l’argomento sia da un punto di vista teorico (i primi tre capitoli), sia da un punto di vista più pratico, fornendo ai lettori, dal quarto capitolo, una serie di interviste fatte a personaggi sia del mondo del rugby che aziendale, in cui viene raccontata la loro esperienza personale riguardo questo connubio.

Tra le persone intervistate troviamo anche Andrea Di Lenna, direttore di Performando e John Kirwan, ex All Blacks e testimonial sportivo per gli eventi formativi di Performando riguardanti i temi del teamcoaching e del team building.

Nel libro è presente anche un Appendice in cui c’è la descrizione analitica del gioco del rugby, sia dal punto di vista dei ruoli che delle regole, altro elemento importante questo per capire come questo sport sia anima ma anche tecnica.

Il passaggio da non perdere:
la parte più coinvolgente sono sicuramente le interviste, pezzi di storie in cui i protagonisti fanno trasparire la loro visione del rugby come un ponte tra l’essere e il diventare.

A chi lo consigliamo:
a chi è convinto che per innovare e creare bisogna pescare da mondi diversi, attraverso un atteggiamento di apertura verso il nuovo ma allo stesso tempo di critica, per capire cosa si può adattare al proprio mondo e cosa no.

L’onda_ Die Welle

47221Regista: Dennis Gansel

Interpreti principali: Jürgen Vogel,Frederick Lau

Anno di uscita: 2008

 

Recensione a cura di Sara Caroppo

Ci sono scene di film o parti di libri che ti appassionano a tal punto che vorresti uscissero dalla finzione e accadessero nella realtà.
Ci sono film o libri invece che ti raccontano delle storie che preferiresti fossero solo finzione, e invece sai che hanno del vero.

Vedere The Wave dà una sensazione del genere, perché più lo guardi più ti rendi conto che rispecchia una realtà magari estrema, ma comunque relativa alla nostra natura umana.
The Wave è un film uscito pochi anni fa ed è ispirato ad una storia realmente accaduta in Germania nel 1967, quando un professore di una scuola della California dà vita ad un esperimento per “studiare gli effetti, sulle singole coscienze, di una disciplina di gruppo, inserita in un contesto sociale autocratico.” Questo all’atto pratico consiste nel voler vedere come si forma lo “spirito di squadra” e come vive un gruppo, quando questo è guidato da un leader autoritario.
Studiare questo, per la classe del professor Rainer Wenger, è avere un esempio concreto di come i regimi autoritari (il nazismo nel caso specifico) spingano le persone a compiere atti atroci.

E soprattutto risponde alla domanda: oggi questo sarebbe ancora possibile?

Il film dà la risposta e ci aiuta a capire i meccanismi che si nascondono dietro ai comportamenti di gruppo quando questo è mosso da alcuni valori piuttosto che da altri.

Le considerazioni che emergono, vedendo un film del genere, sono molteplici.

Possono essere relative a come sia facile muovere un gruppo contro qualcuno e basare il senso di appartenenza su questa conflittualità latente . Con la domanda: quali sono gli effetti a lungo termine di un simile approccio?

O ancora, si posso fare considerazioni sulla figura del leader, che ponendosi in maniera eccessivamente autoritaria e poco autorevole, perde il controllo dei suoi studenti. Con la domanda: come avrebbe potuto evitare che la situazione degenerasse?

Lasciamo a chi è interessato alla visione del film lo spazio per ulteriori considerazioni o domande.

La scena da non perdere:
le fasi attraverso le quali avviene l’ascesa dell’Onda.
Dalla scena in cui i ragazzi scelgono il nome da dare al gruppo, a quella in cui decidono di riconoscersi in una divisa, alla realizzazione del saluto di riconoscimento come rito, e cosi via….

A chi lo consigliamo:
a chi fa parte di un gruppo o lo gestisce, e a chi è appassionato delle dinamiche che si instaurano tra le persone.

All Blacks Don’t Cry. A Story of Hope.

21548684Autore: John Kirwan

Anno di pubblicazione: 2010

Editore: Penguin Group

Numero di pagine: 223

Costo: $42.00

 

Recensione a cura di Sara Caroppo

Successo, forza , coraggio…cosa sono?

Quello che traspare, leggendo le pagine dell’ultimo libro di John Kirwan, ex All Black e ora allenatore di rugby di fama mondiale, è un insieme di nuovi significati, che chi leggerà queste pagine si renderà conto essere frutto di un percorso personale, profondo e necessario, che ha permesso all’autore di risalire dagli abissi della depressione che l’ha colpito anni fa.

Per spiegarsi meglio.

Perché non iniziare a misurare il successo non in base a quello che otteniamo materialmente una volta raggiunti i nostri obiettivi, ma in base al numero di persone che ci stimano?

Perché non vedere il coraggio come una conquista quotidiana invece che immaginarlo come meta di azioni non ordinarie?

E infine…perché non definire la forza come l’accettazione di quelle che a primo impatto sembrerebbero delle debolezze?

Darsi l’opportunità di cambiare il modo di vedere le cose, di vedersi per quello che si costruisce e si vive quotidianamente e premiarsi per questo, piuttosto che giudicarsi per quello che si sarebbe potuto fare e non si è fatto, sono le chiavi di accesso alla porta del benessere, del proprio equilibrio emotivo.
Un benessere inteso come viaggio continuo, di scoperta verso se stessi e riscoperta verso le piccole cose, che Kirwan racconta di aver intrapreso per combattere la sua depressione, che lo colpì proprio negli anni d’oro della sua carriera, quando tutti lo ritenevano un grande giocatore di successo e nessuno si sarebbe mai immaginato quante sofferenza e turbamento si nascondessero dietro quella maglia nera da guerriero.

Il libro è una testimonianza, un messaggio di speranza per coloro che soffrono di depressione (secondo le statistiche mondiali è una malattia che colpisce circa 121 milioni di persone) e non solo.
Il libro infatti è rivolto anche a tutti coloro che sono vittime inconsapevoli delle proprie preoccupazioni e incertezze, dello stress; della tendenza a voler guardare troppo indietro alla ricerca del perché di tutto quello che è stato nella loro vita, o al contrario,troppo avanti, alla frenetica ricerca di qualcosa in più da fare o da avere. Le persone che sono in continua “lotta contro il loro tempo” e che non fanno altro che negarsi la possibilità di vivere il presente.
Di vivere e viversi.

…di cosa è fatto il presente?

Delle piccole cose.
Di tanti singoli momenti che siamo troppo pre-occupati per considerare.
Di tanti singoli momenti che viviamo da così tanto tempo che ormai li diamo per scontati, dimenticandoci invece che una volta li abbiamo voluti proprio perché ci facevano star bene.
Perdiamo il significato di questi, perdiamo per strada la possibilità di stare meglio.

Il consiglio che Kirwan dà a tutti è proprio quello di ripartire dalla scoperta delle proprie “little things”.
“Sentire” la doccia e gustare una tazza di caffè per esempio sono state le sue piccole cose ritrovate, quei frangenti di vita quotidiana che seppur quotidiani, nella lotta contro i suoi fantasmi, avevano perso “vita”.

Questo processo di riscoperta, spiega Kirwan nel libro,non vuole certo essere la soluzione al problema, ma può essere in grado di dare quella sensazione di respiro e di sollievo necessario per uscire dal tunnel della depressione, e perchè no?,evitare che chi sta bene ma è vittima dello stress e preda delle sue preoccupazioni, ci si avvicini anche solo per sbaglio.

Di questi consigli, il libro è pieno.
Kirwan ci regala le sue domande e le risposte che è riuscito a darsi, ci induce a fare delle considerazioni a partire dalle sue riflessioni, ci racconta pagina dopo pagina la sua storia, perché ognuno di noi ne faccia buon uso.
E perché, chi sta percorrendo il tunnel da cui lui con coraggio è uscito, sappia che per quanto questo possa essere lungo e buio, è comunque un tunnel con una fine.

Il passaggio da non perdere:
“ci alleniamo ogni giorno; quando andiamo in palestra dedichiamo un’ora e mezzo al nostro fisico.Perché non siamo in grado di andare da uno specialista e dedicare un’ora e mezzo alla nostra mente?” (trad.)

A chi lo consigliamo:
a chi pensa che gli All Blacks non piangono.

* La storia di John Kirwan, la sua battaglia, le sue paure e il suo ritorno alla vita sono diventate un progetto per aiutare chi soffre di questa malattia e sono raccontate in un cortometraggio (in inglese) diretto da Julian Shaw

Volevo solo dormirle addosso.

dormRegista: Eugenio Cappuccio

Interpreti principali: Giorgio Pasotti, Cristiana Capotondi.

Anno di uscita: 2004

Dall’omonimo romanzo di Massimo Lolli

 

Recensione a cura di Cristiano Lai

Marco Pressi, giovane e ambizioso formatore del personale di una multinazionale, si ritrova dinanzi ad una proposta che non può rifiutare. L’azienda per la quale lavora è in crisi, i venditori non lavorano come dovrebbero e lo stesso amministratore non segue più il lavoro con il dovuto impegno. I suoi superiori nel corso di una riunione gli comunicano che dovrà, in un arco di tempo ridottissimo, far uscire dalla produzione 25 dipendenti di vario livello senza creare tensioni visibili. Se ce la farà avrà un avanzamento e otterrà un cospicuo riconoscimento in denaro. In caso contrario lo attende un portasigarette. Da quel momento la vita di Pressi cambia. Dovrà attrezzarsi per convincersi che lo slogan “People First” che caratterizza la sua azienda non è altro che falsità. Lui non può e non deve provare compassione per nessuno. Il film s’incentra sull’evoluzione del protagonista che si trasforma da figura stimata e benvoluta in azienda a spietato “tagliatore di teste”, guardato con sospetto e timore da tutti. Anche la sfera privata del protagonista subirà un notevole cambiamento; sempre occupatissimo inizierà a trascurare la sua ragazza Laura, la sorella e la madre. Il film ci offre un taglio cinico sul mondo del lavoro e sulla distorsione comportamentale generata da target ambiziosi e sfidanti. Uno spaccato di vita aziendale, che in questo caso assume una dimensione patologica, dove parole come stima (“Ti stimo”, infatti, è la frase che il protagonista ripete più spesso) vengono ripetute all’infinito sino a perdere completamente il loro valore e significato reali e a divenire formula vuota da utilizzare quando ben poco si ha da dire ad un superiore o ad un collega.

La scena da non perdere:
Il dialogo tra Pressi e il responsabile dell’area marketing dell’azienda, dove quest’ultimo offre al protagonista una lezione di raro cinismo, aprendo in lui un conflitto interiore che solo nel finale arriverà ad una risoluzione.

A chi lo consigliamo:
A tutti i responsabili delle risorse umane e a chi è interessato alle tematiche riguardanti l’azienda e le dinamiche sociali in essa implicate.

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