Rugby: uno sport che allena alla vita

a cura di Alessandro Santini
Responsabile della comunicazione presso Dallara Automobili

 

Un pallone ovale in mano, una maglia nera adagiata sopra 191 centimetri di muscoli, due occhi piccoli, uno sguardo intenso e deciso e queste semplici parole: “il rugby non è uno sport, è un modo di vivere. Per noi, neozelandesi è come une religione”.
Siamo in un campo di calcio di provincia e chi mi parla è nientemeno che John Kirwan, uno che ha giocato novantasei incontri con gli All Blacks (la squadra di rugby più forte del mondo, nazionale capace di vincere il 74,5% delle partite disputate nella sua storia), realizzando centoquarantatre punti e trentacinque mete.
Uno che faceva i cento metri in dieci secondi e otto centesimi, nonostante pesasse circa 100 Kg, uno che ha l’attuale record di percorrenza con la palla in mano (90 metri), culminata con una delle più belle mete della storia, proprio contro l’Italia nel 1987.
John è lì che ti parla con il suo simpatico accento neozelandese, con grande serenità, e cerca di trasmetterti la mentalità che anima questo sport: “nel rugby, quello che conta è la squadra, non il singolo. Non esistono i voti individuali. Uno è nessuno: la parola fondamentale è sostegno, all’azione, al compagno”.
Quando allenava la nazionale italiana di rugby, simpaticamente disse: “Voglio che gli italiani giochino come italiani, con passione ed azzardo, come quando guidano la macchina”.
Ora allena la nazionale giapponese e nei ritagli di tempo si diletta in corsi di formazione, dove fa notare ad “aspiranti” e/o affermati manager che i parallelismi fra sport ed azienda sono davvero tanti e che solo avendo uno spirito di squadra, collaborazione e “sacrificio” si possono ottenere dei risultati eccellenti dentro e fuori il proprio luogo di lavoro.
Ci fa capire che il rugby è sempre una storia di vita, perché è uno degli sport più aderenti alle esigenze di tutti i giorni: lavoro, impegno, sofferenze, gioie, timori, esaltazioni.
Ci fa comprendere appieno che non è uno sport da protagonisti, ma una somma di sacrifici e che non esistono ex-rugbisti: chi ha giocato a rugby è rugbista tutta la vita. Non è un caso che in inglese non si dica “rugby player”, cioè giocatore di rugby, ma “rugbyman”.
Un po’ goffi, proviamo i primi esercizi sotto la sua guida, con il pallone ovale che rimbalza sull’erba come una frase di Joyce sulla sintassi.
John parla a ruota libera, ci spiega le regole base, le curiosità del campo ed ad ogni parola ci stupisce sempre di più: “il rugby è uno sport aggressivo, ma non violento. Per esempio, non si può placcare un giocatore senza palla. L’arbitro è un educatore: prima di fischiare il fallo, ti avverte. Nessuno osa protestare. E fa uso della moviola quando c’è una meta contestata”.
Annusiamo dal suo atteggiamento e dalle sue parole il clima che c’è intorno a questo sport, dove i tifosi delle due squadre vivono la partita vicini, senza controlli. Nel rugby infatti si gioca con un avversario, non contro un avversario. E a fine partita, i giocatori hanno un terzo tempo, fatto di birre, sudore e strette di mano tra chi dieci minuti prima se li dava di gusto.
Tu rimani un po’ stordito di fronte a queste realtà. Perché sei nato in Italia. Perché a cinque anni eri già sui campi d’erba, ma con un pallone meno ovale e più circolare. Gli davi dei calci, anziché prenderlo fra le mani ed abbracciarlo con delicatezza. Dopo venti anni, sei ancora lì a dargli dei calci tutte le domeniche e non cambieresti una rete che si gonfia neanche con quattro racchette da tennis, due canestri e sette mazze da baseball.
Pensi, però, anche a tutto quello che c’è intorno. Al calcio dilettantistico che “affronti” ogni settimana, dove c’è totale mancanza di educazione, sportività e lealtà nei confronti di avversario e arbitro.
Ai campi parrocchiali e provinciali, dove genitori ai bordi del campo vedono nel proprio figlio il futuro Totti e lo stimolano ad annientare l’avversario.
Agli spalti della serie A, dove zone franche dello stadio diventano spesso teatro di violenza e sfoghi all’insegna dell’inciviltà.
Alle trasmissioni Tv che ne seguono, dove la moviola fa l’autopsia di ogni azione e scatena zuffe da “bar dello sport”.
Ai comportamenti dei giocatori in campo, idoli o miti, ma non più modelli sia di abilità tecnica che di stile, lealtà sportiva ed equilibrio di vita come erano i vari Piola, Picchi, Facchetti.
Così ti rendi conto di quanto il calcio che, in sé, è fortemente educativo (educa al rispetto, al lavoro di squadra, all’anticipo, alla strategia, alla creatività), stia diventando sempre più diseducativo, con comportamenti e mentalità da “riformare”. Soprattutto se paragonato ad altre discipline.
Si dice che il calcio sia uno sport da gentiluomini, giocato da bestie e che il rugby sia uno sport da bestie, giocato da gentiluomini. Gentiluomini di tutte le classi sociali e non adatto ad un cattivo sportivo, a qualsiasi classe appartenga.
Rimani convinto che l’emozione di una meta non potrà mai raggiungere, anzi, nemmeno sfiorare quella che ti scatena un gol. Magari al novantesimo. Con un fuorigioco dubbio. In un derby. Tu, il tuo sport del cuore, non lo abbandonerai mai.
Ma ogni tanto ripensi a quegli occhi piccoli, a quello sguardo intenso e deciso, agli “insegnamenti” ricevuti da quei 191 centimetri provenienti dall’altra parte del globo.
E rimani sempre più affascinato dallo straordinario spirito che anima il rugby, dove si vince con modestia e si perde con leggerezza, dove il cervello ed il cuore contano più del fisico, dove quattordici uomini lavorano tutti uniti per dare al quindicesimo mezzo metro di vantaggio, dove la vittoria passa sempre dalle mani di un compagno.
E dove tifosi, famiglie, tecnici, allenatori e giocatori respirano a pieni polmoni un’aria pulita e sana. Senza esasperazioni o degenerazioni. Quella vera e genuina. Quella dello sport.

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